
Treviglio

Messina
di Gianluca D’Andrea
I ponti e la grazia
Questa riflessione parte da un aneddoto. Qualche anno fa, a Messina, in macchina, aspetto che scatti il semaforo, quello di fronte alla Prefettura, vicino alla statua del Nettuno. Arriva il momento, ma la macchina che ho davanti resta ferma, pur non volendo cedere alla consuetudine di suonare il clacson, per sbloccare la situazione lo faccio, perché, spazientito, non trovo un modo più delicato. Una volta partito, mando a quel paese l’automobilista che avevo davanti. Un motociclista, che aveva seguito la scena e aveva letto il mio labiale, mi accosta dicendomi con tono gentile: «perché lo hai insultato, tu non hai mai sbagliato?». Si allontana lasciandomi ammutolito e non posso fare a meno di immergermi in una riflessione che, in quel giorno di sole e di impegni, non avrei mai immaginato. In fondo ogni errore potrebbe essere giustificato, resta che da noi lo sbaglio, proprio perché giustificabile, può essere perseverato, costituendo una norma. L’errore come norma, la giustificazione di un comportamento che, da scorretto, si fa consueto, entra nelle abitudini, nelle fibre e può trasformarsi in alibi.
Questa esperienza si è riaffacciata nella mia memoria quando ho incominciato a leggere, affondandovi sempre di più, l’opera di Friedrich Dürrenmatt, perché ho potuto riflettere su quanto, a volte, aleatorio possa essere il concetto di giustizia. La sua stessa applicazione si muove con gli eventi, può raggiungere estremi che sconfinano nel grottesco, come nel mio caso, e rischia di dipendere, in fondo, banalmente dalla nostra scelta solitaria, individuale. La pietas per l’errore altrui giustificherebbe anche il nostro errore, fino a non percepirlo più come tale, bensì come un diritto allo sbaglio, condiviso dalla comunità, e che si trasforma in arroganza, tracotanza disumana implicita nel tentativo di tutela personale. Per dirla in altro modo, la precedenza (la cortesia del far passare avanti) può vestire i panni della prepotenza (la legge del molto forte, cioè del più forte).
Non c’è nulla di più banale del male, non sarò io a rimettere in discussione questa acquisizione, per molti versi indiscutibile, del pensiero novecentesco, anzi non ci penso minimamente, dato che è un’acquisizione anche per me indispensabile, per questo mi piacerebbe riflettere sulla banalità del bene, sulle capacità di relazione e rispetto reciproco di ogni essere umano.
Questa volta le esperienze che mi hanno fatto pensare in questa direzione sono recenti, ancora non coperte da quell’oblio per cui il ricordo deve compiere uno sforzo di fuoriuscita che produce qualche deformazione. In questi mesi ho potuto assistere alla costruzione di ponti, anzi ho contribuito col mio lavoro alla loro realizzazione. Ho potuto approfondire la conoscenza di persone che hanno illuminato con la loro apertura, necessità e volontà d’incontro, la mia esistenza. La letizia, la grazia, in altre parole l’elargizione, sono, in primo luogo, una disposizione, si creda o non si creda che possano venire direttamente da Dio, è evidente che si tratta di doni, ma i doni sono fatti per chi li sa accogliere. In questi mesi, dicevo, è nata, una piccola comunità, la quale, per gioco è stata chiamata Nuova Scuola Messinese, cioè 5 persone provenienti da uno stesso luogo, con una forte passione condivisa, hanno legato l’attimo del loro incontro a una prospettiva, a un percorso, cioè, in cui la poesia è uscita allo scoperto, valicando i confini dell’esperienza autonoma, sentendo l’urgenza del dialogo e dell’accoglienza dell’altro. Il gioco sta continuando e produce altri dialoghi, lo dico per chi pensasse che l’appartenenza a un territorio, nella fatica di concretizzare nella stessa appartenenza un’identità (faccenda necessaria, comunque), fosse sintomo di chiusura o di scelte escludenti. Al contrario, come ho potuto constatare da protagonista di quest’esperienza, si stanno costruendo ponti con altre realtà, alcune conosciute, altre meno note, il che conferma la disponibilità del microcosmo della poesia italiana ad aprirsi, a non restare ingabbiato nelle camere chiuse dei particolarismi e delle oligarchie accademiche.
Sulla scia di questo slancio alla collaborazione, stiamo riscoprendo la banalità del bene, appunto, la voglia del contatto e, attraverso la comunicazione, la necessità di essere in comune nella diversità.
La lingua media e transitiva che il nord del nostro paese riesce a parlare si accosta alle circonvoluzioni sintattiche e ricche di incisi, di aggiunte, del sud e, nonostante il livellamento effettuato da sessant’anni di linguaggio televisivo – anzi, paradossalmente anche per merito di questo livellamento – si parla una lingua comune, dis-posta, proprio perché fortemente ibridata. In prospettiva, una lingua “imbastardita” ha più possibilità di sopravvivere proprio grazie all’elasticità acquisita nella ginnastica delle forzature: gli anglismi, i tecnicismi vanno ad aggiungersi alle differenze locali di cui l’Italia è così ricca da essere in esubero. Alla lingua media, quella comprensibile del parlato, può affiancarsi una lingua scritta che, partendo da quella stessa medietas, si faccia accogliente nei confronti dei possibili influssi “localistici” come dei “tecnicismi”, insomma delle lingue “altre”. Solo nell’ibridazione si può realizzare l’accoglienza, anche in termini linguistici. Ciò che conta, dunque, è la disposizione, essere spazialmente dislocati e aperti all’alterità, questa la banalità del bene.
(Maggio 2014)