Spazio Inediti (8): Tommaso Di Dio – di Gianluca D’Andrea

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Tommaso Di Dio

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (8): Tommaso Di Dio

Sotto il deserto
Sterile nel tempo,
Procede fresco e lento
Un fiume immenso.

C. Rebora

Il giorno che s’avvera; da qualche parte nella mente
l’erba, ogni singolo
mattone che all’alba prende
luce e presenza. Poi
la salita lungo i boschi, la spianata
la casa bassa e le poche finestre
i vetri e l’opaco, la porta che si apre e sei
cielo di sguardi dentro tutto questo
sogno innocente. Ma dopo la notte c’è
l’aria fredda e la scura
discesa nella metropolitana; dopo arriva
la catena regale degli abbracci
degli sputi della cenere da scacciare
a viva forza. E lei è lì; prega
storta e disancorata. Sempre lei
balla cade offende, fa di tutto perché mai tu
l’ameresti così come ora l’ami
tua e di tutti, questa
vita reale più ricca e sgualcita
dal niente che non l’abbandona.


È un piccolo percorso di risalita, un’ascesa laica all’innocenza, la prima parte di questa composizione. I primi nove versi (dei 20 complessivi), infatti, tentano la costruzione di un quadro che si presenta come l’avveramento del sentire nella sorpresa dell’esserci: «Il giorno che s’avvera; da qualche parte nella mente/ l’erba, ogni singolo/ mattone che all’alba prende/ luce e presenza». La presenza di oggetti poco definiti, che lasciano spazio alla rivelazione di un senso che non si spinge oltre – non lo vuole – quei minimi contatti di realtà. Una realtà illuminata per un attimo (la rivelazione) che poi si appresta a ridiscende-re «scura» accompagnata dall’«aria fredda […]/ nella metropolitana». Catabasi del segno che, impastandosi di vita, prova a riformulare una visione per accostamenti e aderenze nei confronti del reale, e suscita symbŏla, idee diverse dai meri dati sensibili. Non è lo slancio ma la volontà umile, bassa (ricordiamo che il poeta è lombardo), a cercare e ad aspirare all’immersione nell’esistere: «[…] E lei è lì; prega/ storta e disancorata. Sempre lei/ balla cade offende» la vita in deficit, la vita fragile da amare nonostante il male, il «niente che non l’abbandona».
L’aspetto edificante, la religiosità laica che ha una tradizione importantissima proprio in Lombardia – si guardi alle origini della nostra letteratura, a Bonvesin de la Riva per esem-pio – è presente in questo testo semplice, accessibile ma non per questo ingenuo. Abbia-mo fatto riferimento a una costruzione per tappe: la prima, “ascensionale”, vive in un tem-po di sospensione, tra il percorso concreto e l’immagine mentale della salita, fino a una fu-gace apertura metafisica («[…] la porta che si apre e sei/ cielo di sguardi»). L’atmosfera è tenue e non è sbilanciata neanche nella fase discendente (dal verso 10 in poi), anzi dopo una breve parentesi – le metafore “oscure” dei vv. 12 e 13, «la catena regale degli abbrac-ci… ecc.» – torna a concretarsi nella figurazione della «vita reale», in una contrapposizione col niente dell’ultimo verso, che ristabilisce la scelta dopo l’attraversamento. Il viaggio del soggetto, che si dispone a una maggiore aderenza ai ”segnali” della vita, è, quindi, la semplice constatazione di esserne parte e di amarne la fragilità, perché è sempre incom-bente l’esposizione al nulla, alla fine.

(Marzo 2014)


Tommaso Di Dio (1982), vive e lavora a Milano. É autore di Favole, Transeuropa, 2009, con la prefazione di Mario Benedetti. Ha tradotto una silloge del poeta canadese Serge Patrice Thibo-deau, apparsa nell’Almanacco dello Specchio, Mondadori, 2009. Nel 2012 una scelta di suoi testi è stata pubblicata in La generazione entrante, Ladolfi Editore. Dal 2005 collabora all’ideazione e alla creazione di eventi culturali con l’associazione Esiba Arte, per la cui compagnia teatrale scrive te-sti. Nella sua città e in altre, partecipa agli incontri di poesia Fuochi sull’acqua.

L’idea irraggiungibile: Due testi di Clemente Rebora da “Canti anonimi” (1922)

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Clemente Rebora

di Gianluca D’Andrea

L’idea irraggiungibile: Due testi di Clemente Rebora da Canti anonimi (1922)

«E l’individuo, nulla per sé, è tuttavia creatore nella storia».

G. Contini (Due poeti degli anni vociani: I. Clemente Rèbora, in Esercizî di lettura – Sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Nuova edizione aumentata di «un anno di letteratura», Einaudi, Torino, 1974, p. 4).

Scrive Contini, nel saggio citato in esergo, riflettendo sullo storicismo presente nell’opera reboriana: «l’attuazione dell’idea nel reale è […] interpretata nel senso dell’insufficienza della rappresentazione e della riflessione alla comprensione del reale» (G. Contini, Due poeti degli anni vociani, in op. cit., p. 4). Questa storia dell’idea, interpretata come irraggiungibilità dell’ideale in vita, si concentra sulla “lombardizzazione” delle scelte linguistiche, riguardanti lo storico senso d’inferiorità di una koinè che, nella consapevolezza della distanza dalla lingua “letteraria”, scopre la plausibilità di emancipazione dalla stessa, proprio credendo nell’umiltà scarna delle sue potenzialità.
L’accensione, l’ideale di lingua pura, s’intensifica, anzi, dal basso, da un humus popolare che tenti di ristabilire il contatto con la “naturalità” di «un’immediatezza ingenua» (G. Contini, ibid., p. 7). L’iniziazione alla natura, appiglio “reale” che, però, si rifà a un’idealizzazione della stessa, ottiene come risultato il sentimento nostalgico verso una purezza illusoriamente perduta, in sostanza è il tentativo di annullare il divenire, questione ben evidente in alcuni testi dei Canti anonimi:

Sotto il deserto

Sotto il deserto
Sterile nel tempo,
Procede fresco e lento
Un fiume immenso.

*

La terra gli fa largo,
E si pulisce;
La tenebra in letargo
Si spoltrisce.

*

Nel profondo trae umore
Da chi vive e da chi muore:
Comunica col mare
E vien dalle montagne:
Aiuta le compagne
Che sono in mostra al sole,
Acque cupe e acque chiare;
E circola, e varia
Con le nuvole dell’aria.

*

Ogni goccia in sé raccoglie
Che filtrava esaurita,
E l’abbevera di vita,
Non più sola con la morte.

*

Ma di fuori sta il deserto
Senza avere giovamento:
Moltiplica la sabbia,
Ammucchia pietre e rabbia;
Ignora il fiume immenso,
Che se sporge in refrigerio
Dentro l’oasi feconda
Una cinta lo circonda,
E fa suo il desiderio.

*

Così il fiume torna ancora
Nel mister del proprio corso –
E per sé nemmeno un sorso.

(C. Rèbora, Le poesie, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano, 1999, p. 157).

Le referenze, evidentemente antinomiche del “deserto” e del “fiume”, espresse nell’incipit del testo, mascherano il proprio antagonismo nel ritmo giocoso, al limite della filastrocca, esprimendo una scelta di poetica: la simplicitas linguistica può già intendersi come tensione alla purezza ingenua, fingendo un raggiungimento innocente che, dal piano formale, si dipana sugli impulsi timbrici. Così, le gocce raccolte nel fiume dell’esistenza significano, attraverso l’utilizzo di una metafora estremamente semplificata – retorica del luogo comune – la tensione a un’appartenenza tradita, per cui l’alterità non è accettata, se non nel senso di un’opposizione ipostatizzata. L’alterità (il fiume?) appare, certo, ma come macchiata da una colpa, per cui il divenire è allegorizzato ambiguamente, così da risultare costipato nella metafora bassa, che vede come unica risorsa il contatto con una zona del reale minima, che il soggetto desidera originariamente pura.
La stessa tensione assoluta è avvertibile anche in Gira la tròttola viva (C. Rèbora, Le poesie, op. cit., p. 159):

Gira la tròttola viva

Gira la tròttola viva
Sotto la sferza, mercé la sferza;
Lasciata a sé giace priva,
Stretta alla terra, odiando la terra;

*

Fin che giace guarda il suolo;
Ogni cosa è ferma,
E invidia il moto, insidia l’ignoto;
Ma se poggia, a un punto solo
Mentre va s’impernia,
E scorge intorno, vede d’intorno;

*

Il cerchio massimo è in alto
Se erige il capo, se regge il corpo;
Nell’aria tersa è in risalto
Se leva il corpo, se eleva il capo;

*

Gira, – e il mondo variopinto
Fonde in sua bianchezza
Tutti i contorni, tutti i colori;
Gira, – e il mondo disunito
Fascia in sua purezza
Con tutti i cuori, per tutti i giorni;

*

Vive la tròttola e gira,
La sferza Iddio, la sferza è il tempo:
Così la trottola aspira
Dentro l’amore, verso l’eterno.

Il perno simbolico dell’esistente si ravviva in un movimento impresso dall’alto, che attrae «verso l’eterno» (v. 24). Perno che, se abbandonato, lascia la vita «priva, / Stretta alla terra, odiando la terra» (vv. 3-4). Ancora a emergere è il senso di una mancanza, che andrebbe riempita col restauro di una purezza originaria, l’idea di un punto fisso. Ancora al divenire occorre un’origine – la metafora semplice della trottola, che si richiama all’immaginario infantile – che funga da canale simbolico per una definizione evidente del reale. La vibrazione allegorica, appena accennata, è identificabile nello spostamento del segno che non ammette il mutamento senza direzione, anzi diventa il desiderio stesso che si convoglia nell’immutevolezza; la circolarità ripetitiva che abbisogna di una spinta per attivarsi, ribadita dall’associazione amorosa: «Così la trottola aspira / Dentro l’amore, verso l’eterno» (vv. 23-24). Questa poesia aspira, così, alla permanenza, per rispondere all’assenza e alla caduta nel caos della materia. Poesia del rimpianto, anticipata già dal linguaggio dei Frammenti lirici, anche se lì era avvertibile un diverso slancio espressivo, per quanto chiuso dalla morale stringente di un «mistico colloquio» (LXVIII, in C. Rèbora, Le poesie, op. cit., p. 124, v. 2) che sarà conservato ad ogni costo (vedi la scelta esistenziale dell’autore) nel rifiuto definitivo del mondo, nella scelta dell’Altro assoluto, immobile: la non fattiva «trasparenza dell’eternità» (ibid., p. 124, v. 4).

(Marzo 2014)

Wallace Stevens: Ibridazione e Verità

Portrait of Wallace Stevens

Wallace Stevens

di Gianluca D’Andrea

Wallace Stevens: Ibridazione e Verità

aurore-dautunnoIn occasione della pubblicazione della raccolta Aurore d’autunno (a cura di Nadia Fusini, Adelphi, Milano, 2014), cioè l’ultima curata dal poeta americano prima della morte (se si eccettuano i Collected Poems, in cui appare The Rock), propongo alcune riflessioni su Wallace Stevens nel tentativo di evidenziare gli aspetti veramente cogenti della sua visione della poesia, e del mondo attraverso essa.
Stevens è poeta assoluto, svincolato da etichette e “scuole di pertinenza”, libero da linee incasellanti e dalla stessa “assolutezza” cui mi richiamo solo per distinguere la Poesia dalla semplice scrittura in versi.
Inizio da un appunto, che sento obbligato, per dare una giusta collocazione, a chi legge, dell’Introduzione di Nadia Fusini alla raccolta succitata. Nonostante il merito di una traduzione accurata, non è sopportabile la volontà della curatrice di leggere Aurore d’autunno come un libro “trasparente” e che “sceglie” di toccare la realtà, intesa come definitiva rinuncia all’aspetto immaginifico della parola. Non è possibile, rischio il sospetto di malafede intellettuale o, meno grave, la cecità critica, concordare con questa prospettiva che, a tutti gli effetti, manifesta una forzatura della visione stevensiana, che invece si costruisce sulla ricerca continua, mai accomodante, su una sperimentazione linguistica che segue il movimento “definitivo” del divenire, quindi dell’esistente. Provo a spiegare: la poesia di Stevens non ha mai incontrato soste o ripensamenti, solo la morte dell’autore ha interrotto il perpetuo rischio, l’ambivalenza manifesta nell’ibridazione tra Idea del Vero e realtà del vero, senza voler spezzare in due l’esistente ma accogliendone le contraddizioni, anzi esponendosi alle sue ineluttabili oscillazioni. La meditazione di Stevens non s’interrompe e Aurore d’autunno è un ulteriore tassello dell’insistente dialogo tra soggetto e mondo – così come la sua ripresa rappresentata da The Rock – nei Collected Poems – può continuare a testimoniare: «Quello stento grido era / Un corista il cui sol precede il coro. / Era parte del sole colossale, // Circondato dai suoi anelli corali, / Ancora lontano. Era come / Una nuova conoscenza del reale» (Non idee della cosa ma la cosa in sé, in Il mondo come meditazione, a cura di M. Bacigalupo, Guanda, Parma, 2010, p. 113), in cui l’immagine del «sole colossale» è trasposizione nell’universale di un particolare che viene da fuori, il grido scheletrico, sottile di un uccello concreto, ma circondato da «una nuova conoscenza del reale», quindi la cosa stessa è l’immersione di tutto nel tutto e non l’importanza della cosa estrapolata dal contesto – e stiamo parlando dell’ultima poesia di The Rock, quindi dell’ultima espressione di un percorso che non ha mai avuto bisogno di ripensamenti e scelte, semmai di affinare le proprie tecniche di scandaglio e immersione; non possiamo, infatti, dimenticare l’ossessione formale di Stevens, la sua ripetizione di modelli sempre più perfetti.
Proviamo a leggere due testi indicativi del movimento costante di questa poesia del movimento e del dialogo tra mente e alterità, di ri-discussione dell’esistente, estrapolandoli sempre dalle due ultime raccolte:

LE DOMANDE SONO OSSERVAZIONI

Nella malerba dell’estate cresce questo germoglio verde il perché.
Il sole s’ammala e patisce e poi ritorna eccolo
All’orizzonte tra adulti enfantillages.

Il suo fuoco non ce la fa a trapassare la visione
Che lo fissa, non ce la fa a distruggere i consensi antichi,
Lo vede così com’è solo il nipote,

Peter il veggente, che dice «Madre, cos’è» –
L’oggetto che sorge con tanta retorica,
Ma non per lui. La sua domanda è completa.

È la domanda di cui è capace.
La domanda ultima, l’esperto aetat. 2.
Non monterà mai sul cavallo rosso che lei descrive.

La sua domanda è completa perché contiene
L’affermazione massima. È il suo teatro,
La sua pompa e processione e sfoggio,

Per quanto il nulla lo permetta… Ascoltalo.
Non dice «Madre, madre mia, chi sei»
Come fanno gli uomini vecchi, assonnato, infanti.

(in Aurore d’autunno, op. cit., trad. a cura di Nadia Fusini, p. 171).

*

LEBENSWEISHEITSPIELEREI

Sempre più fiacca la luce del sole cala
Nel pomeriggio. I superbi ed i forti
Sono svaniti.

Quelli rimasti sono gli incompiuti,
I finalmente umani,
Nativi di un cielo scemato.

Loro indigenza è un’indigenza
Che è indigenza della luce,
Un pallore stellare che pende dai fili.

A poco a poco, la povertà
Dell’autunnale spazio diventa
Sembianza, pronuncia di alcune parole.

Ogni persona completamente ci tocca
Con quel che è e poiché è,
Nella scaduta grandiosità dell’annichilimento.

(in The Rock, trad. inedita di Gianluca D’Andrea).

Il sole ammalato o fiacco di entrambi i testi, allegoria della parola e della vita, secondo le consuetudini simboliche della poesia di Stevens, non è stigmatizzabile nella fissazione di un’evidenza della fine, piuttosto rilancia al movimento della fuoriuscita. Niente di “reale” nel senso dell’accettazione di un contesto stabilizzato, bensì la riattivazione del movimento: «Il sole s’ammala e patisce e poi ritorna eccolo / All’orizzonte tra adulti enfantillages» (vv. 2 e 3 della traduzione, l’originale recita: «The sun aches and ails and then returns hallo / Upon the horizon amid adult enfantillages»). È il movimento del Vero, l’oscillazione di un imminente ritorno, la rinascita della luce. Certo, gli infingimenti retorici sembrano attenuati, forse a causa di un dominio sulla propria materia poetica pienamente raggiunto da Stevens, che non si adagia sulla posizione raggiunta, non si ferma e non rischia manierismi di sorta, ma si aziona in un continuo rilancio e superamento.
Il secondo testo, Lebensweisheitspielerei, persegue e risponde alle atmosfere di Aurore d’autunno: «A poco a poco, la povertà / Dell’autunnale spazio diventa / Sembianza, pronuncia di alcune parole» (vv. 10-12 della traduzione, in originale: «Little by little, the poverty / Of autumnal space becomes / A look, a few words spoken»). Le poche parole rilanciano all’immagine, lo sguardo – o sembianza – è a un passo dal farsi nuovamente visione, ricominciando il ciclo esistenziale – per questo, credo, le stagioni nel mondo di Stevens nient’altro sono che la vita con i suoi alti e bassi. Gli alti della Visione – la mente, l’idea etica – e i bassi – il mondo che non è ridotto alla frammentazione in oggetti. Ossessiva (l’idea fissa del poeta americano) revisione, scontro anche, per cui il soggetto si perde e ritrova in un giro di ritorni e ripartenze creando un’aderenza globale che ne modifica i connotati poetici (l’accomodamento su uno dei due termini della questione – realtà o immaginazione – condurrebbe alla stasi, alla neutralizzazione del ciclo. Invece l’idea per fissarsi non può che continuare a muoversi nella ricerca).
L’agonismo finge l’ipostatizzazione del reale nella mente, Altro e Io desiderano aderire fino alla fusione (cfr. il titolo The Rock, dell’ultimissima raccolta) ma l’illusione – che è la spinta del soggetto verso il mondo – si placa per l’impatto ostruente del reale, facendo ripartire un movimento discendente. L’alternanza tra anabasi e catabasi nell’esistente è il Vero, la relazione ambivalente tra Io e Mondo, senza scelta definitiva, se non quella dell’aderenza a questo movimento, ancora vibrante nelle sue accensioni e nelle sue cadute.
Per dimostrare quanto esposto, basta rileggere con attenzione quanto lo stesso Stevens andava teorizzando. Le date di pubblicazione di alcune sue riflessioni sulla poesia, poi confluite nella raccolta di saggi L’angelo necessario – Saggi sulla realtà e l’immaginazione (1951), sono lì a confermarlo: Effects of Analogy, è stato pubblicato nel 1948, Imagination as Value, nel 1949 (Aurore d’autunno è del 1950). In queste riflessioni si può leggere: «La grandezza del poeta dipende dalla grandezza dell’idea che egli ha del mondo e dalla misura in cui questa include l’idea che gli altri hanno del mondo» (Effetti dell’Analogia, in L’angelo necessario, a cura di M. Bacigalupo, trad. di G. Scatasta, SE, Milano, 2000, p. 108). Nessuna intenzione, quindi, in Stevens di abbandonare il reale richiudendosi nella gabbia iperurania dell’astrazione, piuttosto continuare il dialogo tra il soggetto e una realtà che è partenza ma anche attrito, infatti: «L’immaginazione è il potere della mente sulla potenzialità delle cose; questa potrebbe essere una sua propria caratteristica, che però non genera un valore specifico ma tanti valori quanti ne esistono nella potenzialità delle cose» (L’Immaginazione come Valore, in L’angelo necessario, cit., p. 117). Per Stevens, e ci sembra di poter concludere, la poesia – il poeta lo afferma chiaramente in più occasioni, come esposto in un celebre saggio su L’angelo necessario (C. Doyle, Wallace Stevens: The Critical Heritage, London, Routledge, 1985, p. 354-356) – è un mezzo per conoscere la verità, cioè, la totalità dell’esistente e non, lo ribadiamo, la scelta di un unico punto di vista.

(Marzo 2014)

Spazio Inediti (7): Francesco Maria Tipaldi – di Gianluca D’Andrea

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Francesco Maria Tipaldi

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (7): Francesco Maria Tipaldi

la speranza

mi svegliai nel luogo nero e selvaggio
lunapark
il ratto adolescente provava l’amore

il tempo era un cavallo in una pozza di petrolio
ed io portavo del latte
mi dissero
di avvicinarmi – oh saresti uno sciocco a non avvicinarti

c’era una donna
accovacciata per pisciare e stava attenta alle punture
dell’ortica
e la faceva vedere ai ragazzi

– è bella, è bella e profuma

mi dissero di avere speranza
con i fiori in mano
e le stelle

e il furgone odoroso delle vacche
passava tra le case verso Dio
e più si allontanava più crescevano gli occhi delle bestie

dirai una moneta, sangue, il lardo nella carta
è così

la zingara mi lesse nella mano i giorni passati che ormai
non conoscevo
i giorni tornati al profondo

io sono un altro, le dissi, certamente, la morte mi bacia con forza


giostra-di-campagna

Giostra di campagna, Renzo Baggiani © (2012)

Serie di metafore che si legano creando un grappolo allegorico di senso. Vissuta in prima persona l’esperienza allucinatoria della fine, a condurre questo testo scardinante è il senso di vitalità che scaturisce dalle peripezie immaginifiche, per cui i quadri sono sovrapposti senza tradire l’ordine sintattico, ma la composizione a salti, induce l’unione proprio quando la frammentazione visionaria potrebbe suggerire il contrario. Perché il movimento del testo è discendente, esposto alla necessità di un anticlimax che, riducendo l’intensità al puro manifestarsi dell’evidenza della fine, coagula nelle sue strofe intermittenti accensioni di una vitalità bassa, istintuale, che tenta di portare alla luce l’aspetto baldanzoso dell’esistenza. In pratica prima di cedere alla forza del bacio della morte, si dispiega un mondo di vite concrete da afferrare anche per un attimo, in una giocosità che si avvicina all’innocenza dello sguardo originario: «il tempo era un cavallo in una pozza di petrolio / ed io portavo del latte / mi dissero / di avvicinarmi – oh saresti sciocco a non avvicinarti // c’era una donna / accovacciata per pisciare e stava attenta alle punture / dell’ortica / e la faceva vedere ai ragazzi» (vv. 4-11). La speranza del titolo è proprio la presenza del soggetto che, immerso negli eventi, pur non cogliendo tutti i nessi della complessità dell’esistente, li avverte sensibilmente, vi aderisce per via metaforica, creando quel giusto distacco che ne consente la salvazione. Fino alla chiusura ironica, che rinforza il proverbiale je est un au-tre, adducendo, a conferma dell’ineluttabilità del processo vitale, l’agnizione dell’alterità at-traverso la fine dello stesso soggetto. Il movimento della composizione è il divenire dell’essere nel mondo, del suo sguardo che conserva qualcosa di estraniato, allucinato, della sempre inedita parvenza dell’esistere – ecco perché, le metafore, accavallandosi pa-rossisticamente, permettono di giungere al cuore dell’allegoria, per cui l’eroe, pur con aria disillusa, continua a legarsi confidenzialmente all’esistere, disilluso sì, ma non arreso all’impossibilità del dire proprio nella consapevolezza della fine. La parola, sembra dirci il testo, può nominare la vita partendo proprio dalla certezza abbracciata del suo ritorno alla cessazione: quale «luogo nero e selvaggio», se non il «lunapark» dell’esistenza, aspetta infine il bacio potente dell’alterità assoluta, unica a liberarci definitivamente dal peso dell’io?

(Marzo 2014)


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Francesco Maria Tipaldi nel dicembre del 1974 (foto di repertorio)

Francesco Maria Tipaldi è nato a Nocera Inferiore il 29/III/1986. Ha pubblicato La culla (Lietocolle 2006) e Humus (Arcolaio 2008). Nel 2010 è stato tradotto ed inserito nell’antologia In our own words – A Generation Defining Itself (MW Enterprises) edita negli Stati Uniti. Del 2012 è il volumet-to il sentimento dei vitelli (EDB).

 

Carteggio VI: Estravaganze su un’auspicabile κοινὴ linguistica nazionale (da un poeta ad altri poeti)

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Foto di copertina: Andrea Pozzo, Gloria di Sant’Ignazio, Roma, Chiesa di Sant’Ignazio, 1688-1694

di Gianluca D’Andrea

Carteggio VI: Estravaganze su un’auspicabile κοινὴ linguistica nazionale

Non so se si riflette ancora abbastanza sulle implicazioni della morte della tradizione petrarchesca che ha segnato le poetiche novecentesche, perché è proprio questo il punto cruciale delle istanze manieristiche che identificano il secolo breve.
Gli influssi europei, assimilati tra la fine del XIX sec. e gli inizi del XX, prima, “l’americanizzazione” (anche linguistica) della seconda metà del novecento, poi, oltre a dare la vera spinta scaturente alla nascita delle avanguardie, cioè ai fenomeni reattivi alle ideologie borghesi, e successivamente capitalistiche, hanno contribuito al dissolvimento d’impianto di una visione della poesia troppo affezionata alla tradizione classicista.
Si tratta, in buona sostanza, di rintracciare le valenze mortuarie delle macro-aree poetiche del novecento italiano.
Il manierismo, cui ci si riferisce, è riscontrabile nell’opera del più importante poeta del secolo appena trascorso: il Montale prima nostalgico e avveduto conoscitore della crisi (la cui espressione formale è la concentrazione virtuosistica, spasmodica, sull’aspetto del significante del testo), poi “concettoso” assertore, soprattutto da Satura a seguire, di quella disillusione che purtroppo ha condotto, dopo le urgenze epigoniche, alla plausibilità di una restaurazione neo-classica.
Lo slancio avanguardistico si è spento definitivamente dopo la morte dell’ultima ideologia, per cui lo scontro comunismo-capitalismo, esaurendosi nel modello anglosassone imposto su scala globale, esacerbando la confusione tra liberalismo e democrazia, cioè l’ibrida commistione di imperialismo e libertà, ha portato alla frammentazione individualistica delle coscienze (il monadismo sbandierato da molti come evidenza inattaccabile), trasformando ogni carica eversiva in automatismo, ripetibilità tecnico-linguistica che continua a deformare i generi, giustificando aprioristicamente l’invalidità dei supporti comunicativi tradizionali della forma poesia.
Nell’ambito della frammentazione, che è dominio culturale della nostra attualità, è difficile rintracciare aree vitali, germogli di una rinascita comunitaria.
L’Accademia, in Italia, risente ancora delle frustrazioni novecentesche, e l’anti-petrarchismo non è supportato da motivazioni forti, per questo i tentativi avanguardistici hanno avuto spazio nella risistemazione dei canoni ma, come abbiamo osservato, proponendo come desolante risultato l’esclusione del soggetto vitale, considerato in funzione dell’accettazione di un mutamento avvenuto in direzione del suo annullamento nell’automaticità, risposta mortificante e supponenza antiumanistica.
Un movimento diverso, potrebbe essere rappresentato in poesia, dallo slancio vitalistico di una ricerca della fuoriuscita dal sistema mortuario di cui si stanno tracciando le linee.
La figura di Giulio Ferroni, ritornando alle accademie, è tra le poche figure, se non l’unica, ad aver analizzato obiettivamente la crisi e ad aver recuperato le proposte nascoste dentro le disposizioni dominanti del secolo passato. La propaggine cortellessiana, conseguente all’impostazione di recupero perseguita da Ferroni, pur calpestando le orme di quell’insegnamento, risente in spinta e lo scavo nel patrimonio oscuro del novecento sembra per ora fermarsi a figure già ampiamente documentate, senza che sia avvertibile una riformulazione di poetiche alternative alle linee dominanti. Il contributo più importante, in questo percorso, è stato il rafforzamento progressivo della centralità di un autore come Zanzotto, il quale è riuscito a produrre una poesia che intravede la fuoriuscita, sia dalla visione classicista (che non significa tradizionalista, ricordiamolo), sia da quella avanguardistica, dall’aura mortuaria, per intenderci, in direzione dell’unica verità pertinente a ogni ricerca onesta, cioè quella sperimentale (e in grado, anche, di vivificare l’aspetto “simulativo” del linguaggio poetico).
Minimi germogli crescono dall’attraversamento di una de-costruzione necessaria, il che comporta uno sforzo di comprensione massiccio dell’accaduto, la lingua poetica non ha fatto pace con se stessa, quindi con l’esistente, ecco perché le forme chiuse continuano a risorgere nell’urgenza stilistica di un ordine di nuova concezione. Ed è proprio il repertorio tecnico della tradizione italiana a offrire un contributo d’esigenza estendibile anche al difuori dei nostri confini. Invasata di cultura anglosassone in versione statunitense – tradizione però in deficit perché ha esaurito gli ultimi slanci dell’epica originaria -, la nostra letteratura poetica non deve continuare a riciclare dall’archivio del racconto in poesia, dalle commistioni prosastiche che esprimono solo una dipendenza epigonica, ma può recuperare le sue origini di canto perfettamente inerenti alla singolarità di ogni percorso dentro un contesto che si è fatto globale, neutro, privo di riferimenti certi. Deve tentare il nuovo del proprio, risalendo alle radici di una lingua nata dal definitivo disfacimento della κοινὴ latina, come oggi, insieme ad altre culture, si assiste alla fine di un dominio culturale contaminato da più parti, ma soprattutto dalla stessa dinamica accentratrice che ha avuto come risultato le spinte centrifughe dei linguaggi altri precedentemente spinti a forza nel sistema (parlo ancora di cultura statunitense).
È ormai decisivo tentare di ristabilire un’identità linguistica su basi ibride (impure), seguendo finalmente l’esempio di Dante e dimenticando definitivamente Petrarca. Sì, perché, morta la “lingua” letteraria, morte le avanguardie, occorre rintracciare nuove pulsazioni e il novecento è un laboratorio molto produttivo di voci del margine, non sempre ben focalizzate, e quindi trascurate, da una critica che continua a essere debole per strumenti o libertà di movimento, o peggio ancora, accomodata sull’inerzia di quel poco, e abbondantemente acquisito, che la grande editoria concede ai lettori di poesia. Un esempio di questo difetto d’impostazione è la superficialità con cui è stata trattata la poesia di sperimentazione meridionale, la quale pur producendo voci forti e potenzialmente innovative, ha vissuto all’ombra delle macro-aree canonizzate, incasellata in maniera forzata, o totalmente esclusa (vedi il caso evidentissimo di Cattafi), il che non sempre è un male perché può provocare l’impulso alla riscoperta, soprattutto se sono i poeti a ristabilire il contatto, partendo dalla curiosità e dalla cura per un messaggio a volte surrettiziamente estromesso. La possibilità di riscoperta e scavo possiede una funzione riabilitativa anche del ruolo del poeta, che rinasce vivificato dall’avventura del ritrovamento e dal rischio derivante dal rimettere in discussione le recinzioni critiche che determinavano, ancora fino al novecento, l’eventuale propagazione dei testi. Probabilmente è un’illusione che può giustificarsi all’interno del quadro più ampio delle debolezze critiche cui abbiamo già fatto riferimento. L’attraversamento obliquo della tradizione novecentesca potrebbe portare a rivalutare un linguaggio troppo sbrigativamente etichettato come “barocco”, quasi a rilevare un’opacità espressiva da contrapporre alla lucidità dell’atteggiamento classicista. Una misura che invece si presenta movimentata, ricca, anche paradossale, ma col merito di mantenere un perenne slancio agonistico nei confronti dell’arbitrario e dello scontato, potrebbe suscitare nuove questioni, evitando proprio quella restaurazione classicista che rischierebbe di atrofizzare e musealizzare l’esistente, aprendo, invece, alle sempre vergini potenzialità affabulatorie e immaginifiche del linguaggio. La scomparsa dell’immensa muraglia petrarchesca può collegarsi all’affermazione del suo esatto opposto: non si tratterà, dunque, neanche di ipostatizzare – come confusamente si tenta di fare, soprattutto dalle poetiche del dato di matrice lombarda, manzoniana – l’estinzione identitaria, poiché il soggetto non ha smesso di creare, ma ha adattato le proprie modalità al mutamento esistenziale in corso. L’elaborazione poetica ha già fatto i conti con la crisi scatenata dalla frammentazione imperialistica di cui si è discusso, per cui il soggetto-nazione aveva reimpostato la propria identificazione sul conflitto autoaffermante, conducendo alle estremizzazioni totalitarie. La concrezione del male ha annichilito, a ondate intermittenti, un periodo già provato dalla perdita di slancio della classe sociale borghese instauratrice delle dinamiche imperialistiche nazionali, cioè di fenomeni che hanno portato allo scoperto la violenza radicata negli impulsi economici del capitale industriale, fino agli strascichi spionistici, ma velati e comunque dilaceranti, del secondo dopo guerra. L’ultima propaggine degli spostamenti economici di potere è rappresentabile come estrema astrazione del capitale, nascondimento delle dinamiche di potere, “fantasmizzate” sotto il lenzuolo rassicurante della democrazia globalizzata. Non si può non tener conto di queste dinamiche di falsificazione dell’esistente sotto la maschera di un reale sempre più proiettato verso una dimensione “virtualizzata”, schermata dall’informazione e dalla comunicazione di massa. La sensazione diffusa di una perdita irrimediabile si accompagna sempre al disorientamento del nuovo, infatti, la fuoriuscita non è pensabile nella presunzione dello smascheramento dell’irreale, il quale è parte conformante del nostro essere (da qui la tensione emancipante verso il vuoto della fine, inteso come orizzonte inesplorato, possibilità immaginifica e anche limite fisico), ma neanche nell’accettazione del “dato” come residuo di una vitalità che, solo nella sua sottostima, può certificare un senso (atteggiamento crepuscolare, con in aggiunta la perdita dell’ironia che permetteva, quantomeno, il contatto con la dissimulazione, manifestandola nell’atteggiamento dissacratorio. Come poi l’ironia post-moderna, con la sua esasperazione citazionista, ha fatto conservando il legame con la tradizione). Quest’ultimo atteggiamento, purtroppo, contribuisce allo spostamento della “persona” al margine dell’esistere (in poesia, al margine del testo), confuso col suo centro, trasformandola in oggetto di consumo esattamente come le piccole o grandi cose percepibili dall’habitus della quotidianità, come in un’ipnosi infinita, intossicata dal ciclo, astratto perché ormai autoimposto, del consumismo avanzato. Alcuni spostamenti sembrano verificarsi nell’attenzione a un’oggettualità inedita e dalla paura della perdita, per cui l’aspetto testimoniale della lingua può fungere da collegamento memoriale, così come la concentrazione sulle tematiche ambientali nasce in funzione della conservazione. In questi casi il testo può avvertire una nuova necessità poematica, perché alla memoria occorre lo sviluppo, come la nostalgia ha bisogno di aggrapparsi al passato, ma l’unico risultato plausibile è un ritorno utopico, una mitologia rovesciata, che non ha più possibilità di attecchire, perché rende constatabile solo l’estinzione nel rimpianto. La visione poematica, però, può contenere i germi di un diverso sviluppo solo se il passato viene accettato come repertorio da cui estrapolare il senso dell’alterazione, detto in altri termini: per verificare il movimento. Il ricordo è conoscenza di un’oscillazione apparentemente ripetitiva che porta in sé le sue modifiche, continuamente, per questo la testimonianza va, invece, rimessa in questione attraverso la variazione; infatti, se la testimonianza è nostalgica, l’alterazione è il divenire, un’irrequietezza che si auto-rinnova nel suo stesso movimento. Il soggetto può ricomparire nel testo, riacquisire il ruolo determinante di catalizzatore delle trasformazioni, accompagnando il divenire. La ricomparsa del soggetto esposto nel testo, denudato perché pienamente presente, non può essere ancora ritardata, infatti, è stato il suo annientamento novecentesco (il manierismo formalista e nostalgico, ultima propaggine classicista, come abbiamo visto) a esasperare l’impossibilità di una ricomparsa, inibendo ogni rigenerazione, riducendo il percorso oscillatorio dell’esistente all’assenza, semplificazione mortuaria, intimidazione continua ossessionata dall’aspetto testimoniale, incapace di ripartire dallo scempio della colpa. Purtroppo, nel frattempo, il mondo si è identificato in questa assenza, assorbendo il desiderio della fine, per cui il concetto esasperato del post- ha assunto la posizione di statuto, per quanto agisca complementarmente ai tentativi di scavo e recupero. Forse il post-umano potrebbe ancora essere un soggetto senziente, dipende da come si reagisce alla condizione auto-imposta dell’oggetto “automizzato”, emerso alcune volte dalle riflessioni di queste righe.
Si era parlato del recupero nostalgico attuato da alcune porzioni della poesia attuale, in tale questione occorre poter rintracciare i prodromi del malessere, ipostatizzazione di un male che il novecento poetico eredita dalla comprensione distorta di Leopardi, o meglio da una sua lettura ridimensionata, ancora una volta, dal canone classicista. Questa prospettiva parziale ne ha ridotto l’eredità, esasperandosi nelle tensioni opposte, ma entrambe nostalgiche, e per questo manieristiche, di Pascoli e D’Annunzio. Introversione psicologica ed estroflessione mascherata hanno contribuito all’annientamento del soggetto, come prima risposta all’insofferenza borghese, stagione conclusasi nella rassegnazione castrante di Montale, come abbiamo visto. Quel che viene dopo vive all’ombra di una constatazione che neppure intravede sbocchi se non, lo ripetiamo, in alcune ricerche originali e considerate eccentriche rispetto alla linea dominante.
Non è slancio l’understatement moraleggiante, d’ascendenza abbiamo detto manzoniana, di certa poesia prodotta negli ultimi anni al nord del paese, in cui l’accettazione dell’evidenza, della “datità” delle cose del mondo, sembra pianificare l’ultima confusione tra realtà e verità. Il presente, in queste poetiche, si assolutizza pietrificando il fluire, edificando un mondo crepuscolare che osserva, dalle sue piccole costruzioni, i minimi baluginii, trasformando la tensione plasmatrice nell’attesa sfibrante dell’attimo metafisico, il senso che finge di essere inatteso quando è già prodotto aprioristicamente dalla dimensione dell’attesa. A ben vedere, si tratta di poetiche della testimonianza per cui la fenomenologia del dato è àncora protettiva, costruzione sull’acquisito. La sensazione suscitata è di livellazione claustrofobica senza il respiro ampio dell’apertura. L’esposizione, invece, è il bisogno di una nudità certo immersa nel divenire, cioè non il semplicistico “ciò che è” che, a ben guardare, accade in un momento preciso sotto gli occhi del poeta, il quale presumendo di ridurre il suo ruolo alla marginalità tra le cose, non fa che sentire e trasmettere l’agio dell’accomodamento tra le stesse. La poesia, però, non cerca l’agio, né la prospettiva, comunque privilegiata, della testimonianza, ma lo slancio della ri-creazione continua, tentando di dare forma all’informe, illuminare, anche per un istante, ma non costruire, dare sempre la giusta evidenza alla terminazione (il buio che circoscrive l’essere).
Altra strana faccenda della nostra letteratura fu trascurare la vicenda sperimentale dell’opera carducciana, per la prorompenza della figura e del ruolo di questo poeta. Il nostro gusto è stato orientato in direzione della crisi e della riduzione, chi non sente trasporto per Pascoli evitando Carducci per motivi non strettamente inerenti alle capacità testuali? Mi limito al messaggio legato a sperimentazioni altissime ma incompatibili, fatto sta che la posizione del soggetto in Pascoli è esposta in negativo, il fanciullino è un piccolo narciso, non un creatore di forme, ma un disfacitore: «A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra […] » (G. Pascoli – da Il fanciullino). La sperimentazione è la poesia della riformulazione, conoscenza delle possibilità della parola che non concede tregua e accomodamenti, non nei soli termini della dissoluzione ma anche in quelli della vitalità che la contiene. Una vitalità emergente dall’abisso (ancora un’evidenza etichettabile di “barocco espressivo”, ma quanto stanno strette le etichette!), l’espressione assoluta per cui il singolo è presente, nitido nella sua non definizione, cioè presente alla propria alterità. Il testo poetico, in questi casi, mette a disposizione un messaggio “veramente” comunicabile, perché è nella complessità l’unica evidenza, contrariamente alla semplificazione assecondante del punto di vista.
Il movimento appena esposto ha la caratteristica di focalizzare dei valori comuni come l’immaginazione creativa del soggetto che si espone ad altri soggetti in modo diretto – senza infingimenti di riduzione a oggetto tra gli oggetti – o la vitalità espressiva della rielaborazione continua che è un dovere nei confronti del divenire, oscillazione espressa dalla mutazione e ripetizione dei registri.
Forse ripartire da considerazioni che riguardino le potenzialità benefiche di un linguaggio che ci si ostina a definire estinto (quello della poesia, che invece si continua a scrivere), potrebbe combaciare con il ribaltamento del canone pluricentenario, e questo veramente estinto, classicista. Certo è difficile lasciar andare il morto, l’elaborazione del lutto per un assente così ingombrante potrebbe prolungarsi, ma la vitalità espressiva che si avverte come fecondamente produttiva potrebbe collaborare a questo inevitabile processo, anzi potrebbe focalizzare, nell’essere contro la conservazione dello spettro, un nuovo orientamento (quello di cui si avverte la mancanza) del linguaggio: alla purezza dell’espressione sostituire in via definitiva la sua necessaria – perché continua – ibridazione. Il coraggio dell’estroversione può rispondere alla crisi antropologica in atto, solo occorre intendere le potenzialità dell’esposizione del soggetto e, di conseguenza, del linguaggio in un contesto che tende ad accettare, ancora, la banalità del male come un concetto distaccato dalla sua scaturigine (intrinsecamente immersa in un disordine epistemologico e storico che si protrae da almeno due secoli e che potrebbe aver fatto il suo tempo – anzi, chi scrive queste parole ne è assolutamente convinto). Occorre ormai riconoscere, invece, che “il male di vivere” ha smesso di essere produttivo e sta consegnando il linguaggio alla fine delle sue potenzialità creatrici.

(Marzo 2014)

Angelo Maria Ripellino – testo e commento

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Angelo Maria Ripellino

di Gianluca D’Andrea

Se entro, cambiano súbito discorso,
io, canna odorosa di una lontana estranía,
hanno occhi di vetro, abominevoli fòssili,
turbati nella loro ciurmería.
Gole quadruplicate dall’axungia,
sacchi di stabbio in vesti di broccato,
ceffi tinti di stibio, malsanía,
stanno formando un governo di coalizione,
un concistoro grifagno e impagliato.
Se entro, cambiano súbito discorso,
io, grido angosciato di donna nel suo primo parto,
mi guardano come alimenti flemmatici,
borse di viscidi pesci, turgori da infarto,
babbuini eteròcliti, loschi batràci,
frégola che nasconde putridume:
soffocheranno il mio grido, il mio fiato,
mi metteranno a cardare montagne di piume.

(da Sinfonietta, 1972).


Più reale del reale, perché vero, tutto nuovo e rinascente, nessuna iterazione, nessuna stanchezza. In un testo il cui tema è il malessere del soggetto nei confronti del circostante (composizione chiusa al dialogo, centrata), in entrambe le parti in cui è strutturato, si leggono le contrapposizioni e il disgusto giudicante di un io che si autodefinisce «canna odorosa di una lontana estranía». Definizione che enfatizza la, a volte necessaria, distanza, per cui il poeta non si trova partecipe del male ma al contrario colpito da esso, nel raggiro dell’estraneità a un’idea di giustizia pertinente solo all’uomo. Non essendo presente un bersaglio reale, occorre leggere, nelle intenzioni del poeta, l’assolutizzazione del messaggio, perciò il raggiro è uno dei presupposti plausibili dell’alterità come esistente, non specificata in un quadro descrittivo. L’unità dello stesso esistente è crepata dalla «malsanía», da un malessere che può ripercuotersi su tutto, accadere, per questo il soggetto della parola ha il dovere di denunciarne la presenza nella sua constatazione. L’accumulo d’improperi inusuali, giocati sull’oscurità etimologica, sull’uso dotto e rielaborato dei termini, aumenta il distacco del poeta, ma il testo intenta uno scontro frontale col lettore, mostrando la richiesta dell’ascolto, anzi imponendola. All’io «canna odorosa» subentra, nella seconda parte, l’io «grido angosciato di donna nel suo primo parto»: una volta chiarito da quali «impurità» si prendono le distanze, occorre ristabilire il contatto e la scelta di Ripellino cade sull’origine, sul dolore netto che apre alla nascita, in contrasto bruciante con la mala-natura dei «babbuini eterocliti». Tutto il testo è una metafora dello scontro tra io e quella zona di alterità rappresentata dalla «malsanía», la deformazione e l’impurità del malessere, laddove il versante della spontaneità nascente agisce da contraltare positivo. La scenetta teatrale e allegorica, edificante, si conclude con l’immagine del poeta condannato a un supplizio la cui inutilità è correlativa al soffocamento della voce poetica («soffocheranno il mio grido, il mio fiato») a causa di un male, che oltre la sua verifica continua, non può essere estirpato.

(Marzo 2014)

Spazio Inediti (6): Luciano Mazziotta – di Gianluca D’Andrea

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Luciano Mazziotta

di Gianluca D’Andrea

Spazio Inediti (6): Luciano Mazziotta

Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose introdotte dalle percezioni.

S. Agostino

Promemoria

“Tutto col tempo diventa memoria”
(Aristotele, De memoria et reminiscentia)

…e dei lapsus, che farne dei lapsus?
Se ogni volta che inciampi interrompi
un tuo ciclo vitale, è per perdere il filo,
per riprendere fiato e iniziare
da un indizio non valutato.

La linea si spezza: è naturale si spezzi.
Prendi ad esempio la Karl-Marx-Allee:
la memoria è geometrica; la storia è
compatta, compatto è l’asfalto:
non ci sono buche né vuoti.
Gli edifici non ammettono fughe
né pause, se pausa è un salto tra tempi,
da un ordine ordinario a un atto involontario:
come quando ti chiamo col nome
cui vagamente pensavo e diventi
proiezione casuale di una faccia
che niente ha a che fare con l’originale.

Sì, ma dei lapsus, quanti lapsus
per fare una storia? In un’eternità
avremo tutt’al più formato un’anamnesi,
una vaga sensazione di ricordo –
come quel rumore intermittente
della freccia avvertito in dormiveglia
dopo un lungo tratto di autostrada.

Risvegliarsi è avere scelta: uscire
dai percorsi obbligati,
incontrare tombini e sostare.
Non sono eventi ma dati,
interferenze che tessono
un tappeto di dettagli marginali
al di sotto della microstoria:
sbadigli distrazioni impulsi
o scarti
necessari:
come le parole
dette giornalmente in modo compulsivo:

tu inciampi su reperti pentole cucchiai
conservati in pessimo stato e da qui
io ti scrivo.


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Berlin – Karl-Marx-Allee, Marcus Künzel © (2009)

Poesia di pensiero che si confronta con la memoria, una memoria da ricostruire come la «Karl-Marx-Allee» al verso 7 suggerisce; costruzione viaria fatta di successive stratificazioni, citazioni architettoniche che, all’interno del nostro testo, alludono a un’originalità perduta (o mai esistita?), o meglio, aspirano a una rappresentabilità coerente, «compatta», senza «buche né vuoti» (v. 10), tensione ideale o movimento discendente di un’idea, a discapito della citazione iniziale da Aristotele, centrata sul movimento del tempo. La meditazione si fa dubbio linguistico, la possibilità del nominare si confronta con l’origine perduta proprio nel movimento e constata una sconfitta: «come quando ti chiamo col nome/ cui vagamente pensavo e diventi/ proiezione casuale di una faccia/ che niente ha a che fare con l’originale» (vv. 14-17). L’aspetto mnesico del dire, col suo carico di ricognizione imperfetta (vedi l’«anamnesi» al v. 20), pur non potendo costruire forme compatte, narrazioni coerenti, concentrandosi sulle “falle” del racconto (i “lapsus” ricorrenti in punti strategici della composizione, inizio e centro, quasi a confermare la necessità di questi scivolamenti in crepe originarie, dove il senso è incontrollabile, capovolto) sembra riscoprire la sua possibilità liberatoria: «Risvegliarsi è avere scelta: uscire/ dai percorsi obbligati,/ incontrare tombini e sostare» (vv. 25-27). Raggiunto questo traguardo, però, il dire si complica, ragiona sull’accaduto, sembra volersi riaddormentare nei «dati» che ricoprono l’evento: la memoria si oscura per accumulo, la linearità si perde nelle «interferenze che tessono/ un tappeto di dettagli marginali» (vv. 29-30). La fine del componimento si chiude in un ritorno ciclico, in cui il soggetto si ritrova nella condizione di dover affrontare nuovamente il problema: «tu inciampi su reperti pentole cucchiai/ conservati in pessimo stato e da qui/ io ti scrivo» (vv. 37-39). L’unico spostamento avvertibile riguarda la trasformazione del “lapsus” in una nominazione (gli oggetti presentati) che, per quanto diroccata, in pessimo stato, ricorda l’attraversamento appena compiuto, per cui il soggetto può continuare a scrivere da questi inizi ripetuti e mutevoli. Il movimento e la sua idea sembrano essere assorbiti in un solo gesto di fiducia nei confronti del logos, scavare tra le sue radici contorte, tra le volute infinite dei significati, è compito arduo ma che permette di individuare la necessità della trasmissione.

(Marzo 2014)


Luciano Mazziotta è nato a Palermo nel 1984. Specializzato in Scienze dell’antichità, ha vissuto parte degli anni della Laurea triennale tra Palermo e Amburgo. Tra Marzo e Settembre 2011 è stato borsista in qualità di Post-Graduate Student presso la Humboldt-Universität zu Berlin. Nel 2009 è uscita la sua prima silloge di poesie Città biografiche (editrice Zona). Sue poesie e prose sono state pubblicate sui blog “Nazione Indiana”, “La dimora del tempo sospeso” e “Poetarum silva” di cui è anche redattore. Altri testi sono presenti sulle riviste cartacee Poeti e poesia (nr. 21), nel Registro di poesia #5 a cura di Cecilia Bello Minciacchi (edizioni D’if) e, da ultimo, su Argo (XVIII).

Carteggio IV: Tra i canoni – Allegoria e contemporaneo

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Georg Trakl, De profundis ultima strofa

di Gianluca D’Andrea

Carteggio IV: Tra i canoni – Allegoria e contemporaneo

Cari,
avvertiamo un po’ tutti un senso di fastidio per la poetica del “dato”, probabilmente perché sposta il soggetto al margine del testo, lo nasconde in mezzo alle “cose”, appiattendo le possibilità comunicative, riducendo il senso a un’acquisizione scontata, arrendendosi di fronte alla complessità e moltiplicando all’infinito la relativizzazione del punto di vista. Questa vicenda mi fa pensare, politicamente ma anche poeticamente, alla sottostima delle ambizioni di una democrazia indebolita da una frammentazione che ha prodotto individui timorosi, ripiegati sulla salvaguardia del proprio spazio vitale. Una chiusura preoccupante che crea monadi che guardano da una prospettiva sminuita, nonostante i supporti connettivi continuino a moltiplicarsi. Mi chiedo spesso, in questi giorni, in che modo una poetica dello slancio eversivo, per come si sta facendo luce dai nostri discorsi, possa limitare questa tendenza che, a mio avviso, continua sulla strada dell’annichilimento, nonostante i proclami di un’apparente vitalità che si risolve in brevi intermittenze dal sapore crepuscolare.

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Walter Benjamin

Leggendo: «Quell’aspetto illuminante e a volte sconvolgente è legato a un’altra caratteristica, la brevità. È come uno spirito che appare all’improvviso, o come un lampo che illumini a un tratto l’oscurità della notte. È un momento che investe tutto il nostro essere… A causa di questa feconda brevità, essi – gli antichi – lo paragonano al laconismo… Nelle circostanze importanti della vita, quando ogni momento è gravido di futuro e mantiene l’anima in grande tensione, nei momenti fatali, gli antichi erano sensibili ai segni divini, che chiamavano symbola» (F. Creuzer, citato da W. Benjamin ne Il dramma barocco tedesco, Torino, 1999, p. 138), in cui si spiega l’aspetto “momentaneo”, cioè essenziale, del simbolo. Eppure non riesco a comprendere la necessità dello stesso simbolo, il quale nient’altro mi appare se non una sovrapposizione classicista, per cui per essenziale si spaccia l’imitazione di un segno che si presume perfetto. Il Novecento, mettendo in questione il simbolo, da leggere come essenzialità – vedi l’ideale ermetico –, non ha svincolato la parola poetica dalla matrice classicista facendola ricadere nel buio del non-senso, da cui sembrano dipanarsi due percorsi: 1) l’oggettività relativizzante (di cui sopra) che si riduce a epigonismo novecentesco, sempre più sottotono, quindi inutile e arresa; 2) la soggettività agonistica che rischia di scomparire sotto etichette fuorvianti come “espressionismo” e “barocco”. Ritengo, però, che questa seconda diramazione possa convogliare le energie veramente propositive per un distanziamento dal novecento dovuto all’esigenza di un nuova lettura del reale, che non può accontentarsi di riciclarne i risultati logorati da un’aspirazione disillusa, resa estremamente consapevole della fine, ma non in grado di tentare un nuovo slancio aurorale. Questo sentire eversivo, purtroppo (e qui alcuni potrebbero storcere il naso), passa dall’abbattimento del timore per lo stesso slancio. Ma il senso si produce inevitabilmente con una forzatura, una deformazione dell’apparentemente pacificata, “democraticissima”, frammentazione imposta. Non dico si debba verificare un sovvertimento per il sovvertimento, spero, anzi, che il soggetto esponendosi nel testo, possa avere la possibilità di vivificare un linguaggio che non ha più voglia di sentirsi sull’orlo dell’abisso, ma, essendovi sprofondato, ne fuoriesca arricchito. Il movimento continuo dell’allegoria può sostituirsi alla secchezza mortuaria del simbolo (l’oggetto estrapolato dal contesto e in esso reimmerso dopo un aggiornamento terminologico che niente ha a che fare con la poesia, con l’atto creativo). Il barocco, da negativo, astruso, involuto, diventa la transitorietà stessa del segno, scardinamento del senso dato e indicazione che non limiti il possibile. L’allegoria di cui parlo, però, non si appoggia né sulla fede, evidentemente inadeguata ai tempi, né sull’antichità o sull’enigma perduto delle origini e, purtroppo, neanche sulla natura intesa come salvaguardia dell’in-contaminazione. Questa natura è ormai la continuazione di un lavoro umano che tende da sempre a dominare il proprio circostante modificando sempre il reale e anche il concetto di natura, ma con questo non si vuole affermare che il pianeta non vada curato, ne va della nostra sussistenza, dico che il movimento allegorico di rivitalizzazione del linguaggio e dell’esistente non passa dalla conservazione dei dati naturali, ma dalla loro modificazione. Non basta osservare quel che è, perché “quel che è” è già una variazione dell’esistenza e quindi occorre considerare lo sforzo, in senso del tutto laico il sacrificio, di porre attenzione alle mutazioni che illuminano il senso. Anzi il soggetto ha il compito, direi etico, di focalizzare la deformazione di senso, che non corrisponde a un’estetica del negativo o del mostruoso a tutti i costi, ma risponde alla canonizzazione di una bellezza derivativa e circoscritta al punto di vista che si riveste dell’oggetto per continuare a nascondersi, proponendo un’estetica della parola spoglia, neutralizzata nel simbolo “oggettuale”. L’allegoria di cui parlo, anzi, non è semplicemente “barocca” – anche se l’accostamento a questa definizione critica è giustificabile se consideriamo la difficoltà di lettura di un’epoca in deficit identitario, “trivellata” da informazioni sulle sue mutazioni antropologiche e sospinta dall’esibizione di un progresso tecnico-scientifico che definirei “ascetico”, perché induce all’accettazione di un mondo che si separa da se stesso “virtualizzandosi” – ma rispecchia un tempo che, pur dovendosi ancora confrontare con la morte, finge di eluderla, tenta di eliminarla in una dis-umanizzazione assoluta. I segnali dell’allegoria non possono che raggiungerci dagli enigmi futuri, dalle modifiche e dagli spostamenti in atto, ribaltando quello slancio per l’antichità e i misteri dell’origine, perché l’origine è nel presente assoluto in cui ci troviamo a vivere, avendo superato la barriera della posterità, ecco perché l’agonismo del soggetto ha un senso ed è correlato a una diversa elaborazione temporale. Infatti i tagli generazionali sfumano fino a dilatarsi in una memoria che non è più trasmissione ma presenza, per quanto fantasmatica, occorre mantenere la dignità soggettiva a livelli altissimi proprio ora che l’individuo ha facoltà di indossare qualunque maschera e persino di scomparire. Come nella lettura dei geroglifici il poeta ha il compito di trovare la chiave d’accesso a un linguaggio il cui enigma è il suo stesso esporsi, rinnovantesi di continuo, per cui conoscenza non può solo essere osservazione (testimonianza) ma anche vivacità immaginifica, cioè coraggio d’es-posizione. Ecco che l’impegno allegorico assume la sua valenza etica leggibile nel sacrificio del soggetto alla sua esposizione immaginifica, per cui la conservazione dell’esistere è connessa alle sue trasformazioni, per quanto:

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Georg Trakl

Nachts fand ich mich auf einer Heide,
Starrend von Unrat und Staub der Sterne.

(A notte mi ritrovai in un campo,
Intriso di sporcizia e polvere stellare)

(G. Trakl, De profundis, vv. 18-19, tr. di Ida Porena).

(Marzo 2014)

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Barocchismi

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Chiesa della Santissima Annunziata a Messina

di Gianluca D’Andrea

L’essere sottratto a ogni fenomenicità, l’unico essere a cui pertiene questa potenza, è quello del nome. Esso determina il darsi delle idee. Ma esse si danno non tanto in una lingua originaria, quanto in una percezione originaria, nella quale le parole non avrebbero ancora perduto la loro aura denotativa a vantaggio del significato conoscitivo.

W. Benjamin

Forse la parola è indizio, la traccia che riesce a riconfermare l’esistente, la trasmissione del margine che accomuna tutti noi in quanto soggetti alla nostra distanza. Anche per questo la poesia non si accontenta di adagiarsi sul reale fenomenico, fiuta le accensioni per riacquisire il contatto per sempre perduto con la terra. Parte da essa e ne percepisce la fragilità, la parola concettualizza l’esistente, è una parvenza che nella tensione verso la concretezza della materia, combatte la distanza, nonostante la sua ineluttabilità, estrema finzione che coglie nel segno, trasponendo, col segno, la debolezza dell’esistere, crea un appiglio proprio nella parvenza, realtà della realtà. Rischia un mondo altro, desiderio umano delle origini che esorcizzi la paura dell’essere, l’idea non può che essere questa aspirazione originaria, una vera e propria ambizione. Questa poesia s’illude di miglioramento. Il nome, instancabilmente, radicalizza i toni del linguaggio, si riallaccia alla sua altezza musicale, lascia la prosa alla sottostima del reale e percorre nuovamente i sentieri del canto. Non si tratta, dunque, di trovare nuove terminologie, lingue nuove che si applichino al mondo in un determinismo che si maschera d’oggettività, bensì, occorre una spoliazione che, costringendo al denudamento, manifesti la distanza, la realtà dell’ombra, che arricchisce di accensioni la nostra solitudine. Queste accensioni sono i nomi che fanno la poesia e, nell’illusione, in maniera che può apparire paradossale, ri-creano il contatto, una meta-fisica dell’esperienza.

(Marzo 2014)

BREVI APPUNTI SULLA FINE III – L’età dell’ansia: “Il sangue amaro” di Valerio Magrelli, Einaudi, Torino 2014

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Valerio Magrelli

BREVI APPUNTI SULLA FINE III – L’età dell’ansia: Il sangue amaro di Valerio Magrelli, Einaudi, Torino 2014

Il sangue amaro - MagrelliIn questo terzo libro di transizione, dopo Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, Torino 1999) e, soprattutto, Disturbi del sistema binario (Einaudi, Torino 2006), riusciamo a scorgere minimi tentativi di apertura al mondo, timidi però, perché è la crisi del soggetto a farsi più profonda. La martellante auto-riflessività (funambolica, se si pensa ai virtuosismi tecnici sempre evidenti nei lavori di Magrelli e che, coraggiosamente, corrono sul filo dell’autoreferenza) esaspera le conseguenze di una mise en abîme perpetua dell’identità, nell’esubero del rispecchiamento, nell’arrancante storpiatura provocata da un  tempo che, divenendo sempre più incomprensibile, impone per necessità una continua tensione.
Si ripetono le scelte stilistiche (come in Disturbi del sistema binario, da cui alcuni testi sono estrapolati e rielaborati), il ricorso, sempre ossessivo, alle figure d’iterazione. Alcuni esempi a caso: «Schwitters-paguro/ Schwitters-bernardo/ Schwitters-paguro-bernardo./ Che idea, abitare dentro una scultura!/ Che idea, traslocare nell’opera! […] chi di voi è l’animale?/ chi di voi è la conchiglia?» (Due artisti tedeschi – Merzbau, p. 8, vv 1-5 e 8-9) per cui la facondia di anafore e anadiplosi inclina alla cadenza della filastrocca, alla teoria litanica che ipnotizza per stordimento. Ancora: il componimento Welcome (p. 20), nella sua elaborazione complessa, intrecciata, concettosamente barocca, per cui le parole-rima si ripetono identiche alla fine delle tre quartine, così come nel primo emistichio di ogni verso (si tratta di martelliani con chiari richiami all’alessandrino, alla simmetria doppia, la duplice copia di un verso che si ripete su se stesso, così caro al medioevo francese e che qui possiede echi crepuscolari), estremizza una tensione claustrofobica. La forma chiusa, il gioco epistrofico estremo (cui si aggiunge il rinforzo numerologico delle stesse otto parole-rima che richiamano il titolo della sezione in cui il testo è inserito, Otto volte Natale), sono indizi che il grande tema de Il sangue amaro sia il tempo, o meglio, il tempo che passa e, lo abbiamo già accennato, il tempo perpetuo delle epoche di transizione:

Welcome

Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini,
nato nella favela, ultimo fra i bambini,
creatura della notte, amato dai reietti,
scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti.

Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini,
nell’ultima favela neonato fra i bambini,
amato dalla notte, creatura dei reietti,
abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti.

Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini,
quanto amato un favela!, creatura dei bambini,
ultimo nella notte, neonato fra i reietti,
Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti.

Riflessione sul tempo già presente, lo abbiamo visto, con sviluppi sempre negativi, in Disturbi del sistema binario, a confermare il legame stretto tra quell’operazione e la presente sotto l’aspetto della transizione e dello scorrimento. Il mutamento epocale è richiamato in un testo, un acrostico, e si risolve nello scarto ambivalente che inverte una tendenza:

Niente funerali di Stato per Sanguineti
ovvero
Le ceneri di Mike

Per Andrea Cortellessa

Mi sembrava di dover celebrare una morte,
Invece sono qui a piangerne due;
Kyrie eleison per l’Università
E per l’alfiere della sua alterità.
Bello non era. Un Bronzo di Riace,
Ostentava: «Dei due, quello che più vi piace».
Nell’Aula Magna della Sapienza
Guizzava la civetta dell’alta sua sapienza,
Innesto dello Studio sull’amata Poesia,
Ossia: metà cultura, metà idiosincrasia.
Ripeto: oggi perdiamo sia lui, sia l’Accademia,
Nel Tele-Stato che scarta un Professore
Osannando la merce e il suo pastore.

(p. 7)

L’acrostico che appare nelle iniziali dei versi è un nome simbolo, quel Mike Bongiorno che è «la merce e il suo pastore» (v. 13), cioè la sostituzione dell’uomo di cultura con quello popolar-massmediatico per il quale si scelgono i funerali di Stato. Si rileva, in tal modo, il corto circuito avvenuto sul piano dei valori della nostra società, un vero e proprio ribaltamento etico. Così, la fase transizionale, il salto inflazionario che il nostro mondo compie, evidenzia il suo spessore; quella crisi, cui rimanda anche la scelta dell’acrostico come forma testuale (ellenismo, poesia cristiana delle origini e medievale, ecc.), che rispecchia, non troppo lontanamente, le condizioni di un universo presumibilmente destinato alla sua fine entropica o alla ripetizione in una ciclicità infinita.
La paura, che ha condotto l’uomo alla trasformazione relazionale delle origini, è tema principale della terza sezione de Il sangue amaro. In Timore e tremore sembra espandersi l’anamnesi, la storia delle idiosincrasie dell’autore che si compongono ancora di disagi psicofisici e montante terrore per l’alterità. I momenti di rischio, pur moltiplicandosi, presentano i minimi spiragli d’apertura cui accennavamo all’inizio di questa riflessione. Si avverte la necessità relazionale, il freddo solipsismo delle origini trova i suoi attimi di disgelo:

Nei bagni pubblici

Le scritte nei bagni pubblici
mi dicono il dolore
del giovane che scrive,
solo, nei bagni pubblici.
Solo, con la scrittura
di chi l’ha preceduto,
in un colloquio muto,
fitto, nei bagni pubblici.
Anch’io una volta ho scritto,
solo, nei bagni pubblici,
affidando il dolore
agli insulti peggiori.
Qui si scrive soltanto
di odio, nei bagni pubblici,
ma di un odio che gira
come una sigaretta fra compagni.

(p. 26)

Una ripartenza, in direzione comunitaria, dello strumento linguistico e della poesia, appare, infima, nei luoghi della solitudine di cui il nostro tempo è pieno zeppo (non tralascerei di fare un accenno ai profili dei Social Network, ipostatizzazione alla rovescia della solitudine, anzi ricircolo continuo della stessa, dal concreto all’astratto e ancora al concreto e così via). Alla fine di Disturbi del sistema binario, emergevano «ultracorpi» invasivi, incomprensibili, «Creature biforcate e logo-immuni» (vedi Post scriptumAddio alla lingua I e II, in Disturbi del sistema binario, op. cit., pp. 74 e 75), adesso «si scrive soltanto/ di odio, nei bagni pubblici,/ ma di un odio che gira/ come una sigaretta fra compagni» (vv. 13-16), cioè, anche se in negativo, un contatto si crea, pur non accennando a incanalarsi in positivo, oltre il contagio.
Anche affrontare l’amore, soprattutto quello familiare, nella visione critica e disillusa di Magrelli, potrebbe farci immaginare una rivalutazione del contatto: «allora la presenza di gravità dev’essere massima/ almeno come quella dell’amore» (Se tuo figlio si torce in una carrozzina, p. 27, vv. 5-6). La gravità, il peso dell’amore, quel «tremendo tesoro/ che fa argine/ sul ciglio del non-essere» (Cerbero, p. 33, vv. 17-19), riporta la riflessione sul piano dell’esistenza “in comune”, plausibilità di un desiderio che si scontra con la non accettazione del sé. Eppure il senso dell’esistere, un tempo, sembrava originarsi proprio da questa basilare accettazione, interpretabile poi come dono e responsabilità per il peso del vivere stesso, ma erano tempi di terra e religione, elementi non più pertinenti alla nostra contemporaneità.
L’ambivalenza prosegue e a Timore e tremore segue un altro gioco formale, rappresentazione di ulteriore distanziamento relazionale, nell’ineluttabilità della fine di quel mondo a cui abbiamo appena fatto riferimento. L’ipertesto, nelle intenzioni dell’autore, partendo dallo spunto dell’evento di lettura, solitario e per certi versi alienante, riflette proprio sull’impossibilità della relazione, così nel testo iniziale leggiamo: «se amore è la distanza che ci chiama/ e insieme la paura di varcarla» ([Matrice], p. 37, vv. 10-11). Nella più antica tradizione lirica, il tema della distanza dall’essere amato esprimeva la dimensione, nonché l’accettazione, di un ordine sociale e civile, assumeva, per segnali, la possibilità di una lettura del reale, riconosceva una gerarchia di valori per cui la distanza tra il cantore e il potere (il signore feudale ma anche Dio) si risolveva nell’aspirazione di un superamento migliorativo concretizzato dal canto e dalla parola. La frammentazione moderna e la dissoluzione post-moderna dell’ingombro identitario riverberano esacerbate in questo poemetto della separazione, che si conclude nell’impossibilità del contatto:

XI.
e insieme la paura di varcarla

Ma c’è un divieto.
Il desiderio d’essere sradicati da sé,
fino a confondersi con la creatura amata,
si scontra con la forza di gravità che ci governa.
L’io si agguanta al suo io e non si lascia andare.
Da qui la nostalgia per la persona
con cui non potremo mai ricongiungerci
nel paradiso perduto della lettura,
nel paradiso perduto che la lettura addita
sul fondo incantato del non-io.

(p. 48)

L’abisso naturale della nostra concretezza appare inscalfibile, soprattutto per chi ha sempre vissuto il corpo come un peso. La materia si fa ingombro ma il paradiso è perduto per sempre, proprio perché la caduta nel corpo è ineluttabile, gravitazionale, costringendo il mondo al suo degrado “infero”.
Tra silenzi e cadute, tra fuga e presenza, accettazione e rifiuto, si esasperano le movenze di un tempo, il nostro, recluso nel suo percorso senza sbocchi. Così in Annopenanno. Un calendario, sezione che chiude la prima parte del libro, assistiamo, seguendo l’antico genere, a una ricapitolazione della vita, dei suoi alti e bassi. La circolarità emerge dalla numerologia: dodici stazioni pagane, attraverso i dodici laicissimi mesi dell’anno (come dodici sono le sezioni della raccolta), in cui quello centrale, Giugno, importante per il poeta, riassume le possibilità di un ritorno sempre in ritardo, mutevole, un anello di spirale:

Giugno (1957-2007)

I Am A Strange Loop
DOUGLAS HOFSTADTER

Cinquanta volte giugno,
e sarei io, l’anello?
L’anello è lui, questo tempo elicoidale
che torna su se stesso
sempre uguale e uguale mai,
mio giugno, anello solstiziale
di sangue, di nozze, di addio,
eterna vigilia di quella vacanza
che infine giungerà pura
nudissima luce definitiva,
mio sabato dell’anno, rompendo
finalmente l’anello sisifale.

(p. 65)

La seconda parte de Il sangue amaro si apre con una sezione più intima, Piccole donne, con chiari riferimenti ad alcune fasi della vita della figlia del poeta, o meglio, della vita del poeta che osserva la figlia, dalla distanza presente in altri passi della raccolta e che abbiamo avuto modo d’incontrare anche in Disturbi del sistema binario. Anche qui l’ossessione temporale si presenta col suo carico d’irreversibilità e violenza: «Perché la guardo?» – riferito a una cicatrice minuscola sulla guancia della figlia, provocata da una compagna – «Solo per ripetermi che il Tempo/ lì è trascorso, affidando il saluto ad un’unghiata» (Fine come un capello, p. 76, vv. 14-15).
In Otobiografia s’incrociano, nel segno della sottostima, di un understatement “pinzillacchero”, il passare del tempo e le idiosincrasie di matrice sonora, altro segno di continuità (e ripetizione ossessiva) nell’opera di Magrelli, al limite dell’acufene schizoide: «La verità è diversa:/ mentre mi punto alla tempia quell’attrezzo/ che sembra una pistola,/» (riferito a un vecchio phon malridotto) «viene fuori il racconto di storie terribili,/ fucilazioni, il pianto di bambini./ È come una confessione non richiesta,/ una registrazione spedita per errore./ Che c’entro, io, con tutto questo sangue,/ io che mi voglio solo asciugare la testa?/ Ormai ci penso due volte, prima di adoperarlo,/ prima di sprofondare in quell’orrore/ e assistere impotente a certe scene./ Meglio bagnato, allora./ Mi verrà il torcicollo? poco male» (da Rumore, fa’ silenzio!, pp. 85-86, vv. 36-49).
Rumori e suoni di mancanze o presenze eccessive, deformazioni acustiche che amplificano il senso di alienazione, riducendo ogni slancio del soggetto che resta impaniato nella distruzione e nella perdita, nella ripetizione che immobilizza, come nella vicenda della città peruviana di Cahuachi ricoperta di fratture (anche sonore se consideriamo i flauti spezzati), o come nel «suono che si leva uguale,/ il Sempre-uguale» di Suites inglesi (p. 91, vv. 10-11).
Occorre adesso aggiungere che il ripetersi di temi e motivi è speculare alla struttura di molti testi (in cui forme strofiche e numero di versi tendono ad accostarsi in serie doppie) e all’architettura dell’intera raccolta. I dodici mesi dell’anno come le dodici note di un piano (come ci avverte la Premessa a p. 59 nella sezione Annopenanno), il tempo e il suono, iterazione e minimi slanci d’apertura in sezioni che alternano continuamente alti e bassi – piano e forte, appunto – in successione, come in una scansione dodecafonica che vive di accostamenti ambivalenti, senza guide tonali. Serie che si presentano strutturate, preparate (non per niente le note ci avvertono copiosamente che i componimenti de Il sangue amaro sono in gran numero d’occasione, frutti di riciclo testuale). Quest’impostazione strutturale sembra utilizzata in funzione dissacratoria (ricordiamo gli studi di Magrelli sul dadaismo), per tentare, in questo modo, di rispondere alla crisi antropologica in atto. Il gioco degli accostamenti, però, pur concretizzandosi in una testimonianza, non presenta sbocchi all’impasse critica, siamo sempre dentro la paura di Timore e tremore, non ha seguito il monito attribuito a Pagliarani: «affidavi alla nascita/ la parola segreta di ogni storia:// CONTINUA» (Due poeti italianiPagliarani sul Niagara, p. 6, vv. 13-15). L’inghippo relazionale consisterebbe in un’attesa? o non può accettare il nesso etico della responsabilità del singolo per l’alterità per correttezza epistemologica? Forse anche per questo Il sangue amaro continua sulla strada della transizione, verso un limbo che ha tutta l’aria di ripresentare le problematiche novecentesche con un surplus di miopia perseguita, quasi autoimposta, come un limite costruito per circoscrivere la complessa leggibilità del presente e del prossimo futuro.
La sezione Il policida ha accensioni “civili”, traspare un senso di pietas claudicante per i senza-lavoro (i giovani delle pp. 97 e 98), per le vittime del lavoro (l’incidente alla ThyssenKrupp di Torino del 2007, p. 99), oppure l’astio senza invettiva per le oscene manipolazioni burocratiche (I necroburi, p. 100) e per le altrettanto oscene compromissioni nella storia recente della politica nazionale (i due indovinelli che vanno sotto il titolo I guanti di Nesso, a p. 101, indicanti, attraverso il riferimento mitologico, l’ambiguità del messaggio, per cui la camicia del centauro si trasforma in un referente che porta con sé il seme – o sema – della dualità, in quei guanti che conservano nel veleno celato l’uniformità e l’impossibilità della scelta).
La formula dell’indovinello ritorna, come citazione, nella sezione La lezione del fiume, poemetto in forma di rondinets, cioè un tipo di composizione che deriva dal rondeau francese, medievale (ancora un rimando all’era di mezzo) e poi barocco. Sempre epoche di passaggio, transizionali, come il fiume in questione, inteso come vita, dimora esistenziale, come metafora iperbolica del sangue che dà il titolo alla raccolta (il quale manifesta l’ambivalenza quasi ossimorica e circolare di un proverbio, per cui la vita, rappresentata dal sangue, è abbinata a un aggettivo che ne illustra la forza stringente e negativa). Così il richiamo al Sinfosio dell’Anthologia Latina (VI sec. d. C. – Alto Medioevo, tarda latinità, ancora periodi di transizione così com’è transeunte il fiume-esistenza, immerso già nella sua fine) è collegabile ai diversi enigmi che l’esistere pone, ma anche alla vita del poeta che abita la dimora della sua poesia:

XIII. Pesci in poesia

Ancora non ho detto della fauna, della flora del fiume,
il fervore di creature brulicanti che vivono nel flusso,
che vivono nel dolce. Da qui, l’indovinello di Sinfosio:
C’è una casa sulla terra che zampilla e ha voce chiara
È una casa che rimbomba, ma il padrone, muto, tace
Tuttavia corrono insieme, il padrone con la casa.
Questo è il pesce di fiume
che tace nel fiume che mormora,
che nuota nel fiume che nuota.
E il fiume medesimo, pesce-matrioska,
trascina, saltellante e canterino,
il popolo natante insieme a sé.

(pp. 112, 113)

La nostalgia del ricordo, l’evidenza della fine, emergono anche nella sezione Paesaggi laziali, in cui la vicinanza al nulla entropico (o si tratta di metamorfosi brulicanti e, per questo, ancora non chiaramente leggibili?) si presenta in componimenti che contengono tematiche di estinzione: della periferia urbana (Principe delle Volpi!, p. 117), della lingua che si parlava e non si parlerà più (Invettiva sotto una tomba etrusca, p. 118) perché «Adesso parleranno tutti uguale» (ibid., v. 1), in un cupo pessimismo che riflette sul futuro della lingua italiana. Estinzione del rito mortuario, Il funerale laico (p. 119), gioca ancora con la metafora del fiume-esistenza, per cui noi tutti «aspettiamo/ sulle rive del Nihil» (vv. 20-21) una fine che è già avvenuta, «la nuda Verità» (v. 14) del nulla che ci ha trasformato in morti in vita.
L’ossessiva ambivalenza, ma anche confusione, tra scomparsa e sopravvivenza raggiunge il culmine nei versi di Pasqua (p. 122), etimologicamente ancora un passaggio:

Pasqua

In una Pasqua azzurra e solitaria
(la città vuota, la mamma ammalata)
decido di portare mio figlio di sei anni
in bicicletta, lungo il fiume, a nord.
Via per il Pantheon, culla funeraria!
(nessuno in giro, la strada ventilata)
e dritti fino al Tevere, per scordare gli affanni,
luccicante e leggero da farsi in pedalò.
Ma dopo il Foro Italico, dalla ricca statuaria
(la ciclabile scende, più buia, malfamata)
un villaggio di nomadi, fra le baracche e i panni,
ci piomba addosso muto, con lamiere e falò.
Poi la pista risale in una curva d’aria
(noi ci voltammo indietro, la minaccia sventata)
trasparente di luce, lontana dai capanni
degli stranieri – zingari, clandestini, macrò.
Così in quella giornata raggiante e leggendaria
(per la nostra famiglia, sebbene menomata)
restò quel punto nero, vergogna, disinganni,
fratellanza, paura, odio, pena, non so.

(p. 122)

L’ultimo verso, elencazione, asindeto senza climax, se non neutralizzante in quel finale «non so», apre all’ultimo accostamento dodecafonico del libro, all’ultima sezione che riprende l’accordo incipitario espresso dal titolo. Il sangue amaro si apre con la dichiarazione lucida, aperta, del poeta, di una coerenza che dura da sempre, per cui produzione e vita sono legate nell’ambivalenza, il suo «Sangue Amaro./ È una specialità della casa, sin dal lontano 1957» (Sangue Amaro, p. 125, vv. 7-8). Così anche la poesia è vita di un’ombra o ombra della vita (altra eco barocca), in sostanza «lo stampo che porto dentro me,/ stampo del mondo impresso a me nel mondo/ e che mi fa essere al mondo/ soltanto nella forma dello stampo» (Invisibile e invincibile, p. 127, vv. 2-5). Persona è la sua ombra, le sue ombre che allontanano dal matrimonio col mondo, per cui è necessario un filtro (pozione magica) chimico che stordisca il disorientamento del soggetto:

Le nozze chimiche

Queste che prendo gocce
con tanta religiosa compunzione
sono i miei testimoni
per le nozze col mondo.
Soltanto grazie a loro posso stringere
un patto d’amore col mondo,
perché solo con loro reggo l’urto
della sua illimitata ostilità.
Elmo fatato: mio padre non lo aveva
e morì, prima ancora di morire,
incredulo, indifeso ed indignato,
sotto i colpi del mondo.

(p. 128)

L’unione è spezzata in definitiva, senza apparente rimedio, il poeta è solo «testimone alle nozze/ fra la Mancanza e la Ripetizione» (Piccole stanze d’albergo, p. 134, vv. 7-8), ultime divinità del tempo presente.
Proprio la ripetizione, infatti, raffigurata in un’interpretazione circolare dell’esistere, chiude il libro:

Sul circuito sanguigno

È come nel sistema circolatorio:
il sangue è sempre lo stesso,
ma prima va, poi viene.
Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza,
la vena che riporta
il dono delle arterie alla partenza.

(p. 136)

Circolazione, ripartenza continua, che potrebbe scalzare la mancanza nonostante l’ostilità del mondo (dell’Altro), proprio nella sofferenza della ripetizione. Ma dovremmo essere in grado di sopportare il sacrificio dell’apertura, il dolore in essa implicito anche in termini di consapevolizzazione delle facoltà falsificatrici del linguaggio, anzi solo questa consapevolezza potrebbe permettere lo slancio che consente di non girare più a vuoto in quella «stagnazione della vita/ infestata di morte» (La guace, in Disturbi del sistema binario, op. cit., p. 5, vv. 6-7), cioè in una maniera linguistica in cui l’occhio del soggetto non è più capace di illuminare e lottare per il reale, ritrovandone la grazia. Allora, se anche la grazia è morte, occorre esporsi senza difese alla sua deformazione.

Gianluca D’Andrea
(Febbraio – Marzo 2014)