L’OMBRA DELLA DIMORA: “La nudità” di Stelvio Di Spigno, peQuod, Ancona 2010

L’OMBRA DELLA DIMORA: “La nudità” di Stelvio Di Spigno, peQuod, Ancona 2010

 

«Il sogno è il mondo all’aurora della sua piena

esplosione, quando esso è ancora l’esistenza

stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività»

Michel Foucault

L’assenza di un luogo conosciuto, l’angoscia che nasce quando un viaggio non può concludersi nel ritorno, sono le metafore “reali” che colpiscono chi fa esperienza di creazione linguistica da sempre.

Il paesaggio desolato di una coscienza senza patria, le difficoltà di un “precariato” psicologico in cerca di una nuova sistemazione nel mondo frammentato della postmodernità sono i nuclei tematici della raccolta La nudità del poeta napoletano Stelvio Di Spigno. Il linguaggio si spoglia di ogni retorica e si fa narrazione del cammino senza approdo di un “io” mascherato del mondo, che si sforza di sentirsi integrato nonostante il contatto con esso lo risospinga centripetamente in sé, nel suo desiderio sotterraneo di una dimora “umanamente” accogliente. Per spiegarmi faccio subito riferimento ad alcuni versi: «Per ascoltare le parole che si dicono nel sonno/ dovremo puntare la nostra vecchia barca/ dove la casa si fonde con l’Antartico e minaccia/ che non vuole accettare questo freddo,/ il puro freddo di restare disumani/ dopo che ci si è spento tra le mani/ un sogno enorme e vago di noi stessi, senza esplodere» (Fiore di notte, p. 15, vv. 1-7).

Il tentativo anti-nostalgico, anti-elegiaco potremmo dire, è espresso nella necessità ineluttabile dell’agnizione, ecco perché la metafora del sogno non esploso rappresenta l’unica realtà in un mondo disumanizzato. L’innocenza del finale («Ma se ci sveglieremo, in un giorno frainteso,/ avremo di nuovo i nostri anni/ e come giovani stanchi o vecchi imbambolati/ vivremo per sempre innocenti», ibidem, vv. 12-15) appare come un barlume flebilissimo del risveglio anestetizzato di chi ha, nel frattempo, vissuto nella protezione del benessere.

Si spiega la scelta del verso lungo nella parentela strettissima di questa posizione antilirica con una prosa discorsiva, desiderante il dialogo nonostante la sfiducia nell’interlocutore.

La tematica della “casa” diventa quasi martellante nella poesia Le due di mattina (p. 31, non per caso il testo che apre la sezione Familiari) in cui il crollo della dimensione dell’abitare si preannuncia in funzione, ancora una volta, di una mutazione antropologica che ci costringe all’accettazione del nostro essere banale, qualunque e, per ciò stesso, comune: «Schiarisciti la mente perché se guardi la mia casa/ ci trovi solo uccelli che schivano l’aria dall’interno/ e senza più ragnatele e radio d’anteguerra/ sembra proprio una casa qualunque e indolore» (ibidem, vv. 1-4). L’ammonimento rivolto al lettore pone l’accento sulla sfiducia sostanziale che guida la riflessione in scrittura di Di Spigno, un male esistenziale – di origine novecentesca – che non lascia tregua: «non si sogna e non si dorme per un frastuono/ di finestre sbattute che martellano il solaio» (ibidem, vv. 6-7), e si esplica in un finale che non apre speranze neanche “ai pochi rimasti” che hanno soltanto la coscienza illusoria «…di non pensare/ che crollata una casa anche le altre/ non tarderanno troppo a imitarla» (ibidem, vv. 17-19).

Il senso della fine avvenuta, che attraversa l’intera raccolta, rifrange continuamente la spinta a una soluzione che sia rinascita e la blocca nell’indecisione e nell’ambivalenza, rifluendo nel malessere a cui si è accennato.

La poesia dedicata al padre rappresenta il sintomo del movimento appena descritto: l’avvicinamento alla figura familiare, pur non perdendo il suo connotato di trasmissione generazionale, è dislocato in un ricordo che si articola nei tre momenti – le tre strofe – che, dalla mitologia dell’imperfetto verbale dell’incipit, che appartiene alla comprensione del soggetto (il figlio-poeta), si sposta al presente di un dialogo che, non realizzandosi, si presume nella separazione delle trasformazioni di entrambi; l’ultima strofa, infine, presenta la fantasmizzazione della figura genitoriale, il misconoscimento che la allontana nel passato fino a farla sfumare nella possibilità che la relazione non sia mai stata, ribadendo una lontananza insanabile: «così lontano da casa da non sapere dove/ ci siamo mai visti, conosciuti o rinfacciati,/ se fossimo mai nati e se è vero che eravamo» (Dissolvimento, p. 34, vv. 9-11).

L’impossibilità di un avvicinamento relazionale impregna tutti i componimenti a seguire. In Informale (p. 35) leggiamo: «Perché di voi resti il ricordo e tra tutte le mancanze/ si mantenga un amore invischiato eppure grande/ che ancora esiste e non morirà di voi» (ibidem, vv. 16-18), che i referenti siano i familiari o i lettori in generale non fa differenza, rimane l’atteggiamento di Di Spigno a lavorare sulla scarnificazione del proprio essere nel mondo (La nudità è il titolo della raccolta, teniamolo sempre a mente) e sull’irraggiungibilità del medesimo.

Probabilmente la constatazione di questa irraggiungibilità è l’unica possibilità di ri-scoperta della propria necessità, il percorso di crescita che lascia il soggetto poetico solo con la sua scelta che tenta di farsi definitiva. Così nelle tre poesie che concludono la sezione possiamo individuare, in una consecutività che non lascia scampo, questa tematica espressa nei versi: «Concluderò che stare al mondo è lasciarsi acconsentire/ confiscarti in un luogo che sarà per sempre quello» (Aspettative, p. 36, vv. 20-21); «e cosa significhi il mondo, mentre noi che ci abitiamo,/ non possiamo capirlo e neanche ignorarlo» (Escursione, 1978, p. 38, vv. 14-16); «protetto dal mondo e dalla mondovisione/ senza scale da salire né niente da promettere,/ solo una tavola apparecchiata con povertà e grandezza/ di chi vive senza sapere come né perché/ contento di aver visto la luce un altro giorno/ e che un altro giorno la luce si sia accesa di sera» (Pibe de oro, p. 39, vv. 5-10).

Il mondo appare in filigrana, sotto la luce di una rassegnazione che combatte costantemente con desideri di rivalsa rispetto ad una definitiva accettazione. La sezione Lo specchio di Dite si annuncia sotto il segno di una speranza di conoscenza più perfetta; la citazione da S. Paolo in apertura ci comunica questa aspirazione e, in tal modo, ribadisce quanto sopra esposto. L’ampia confessione, che tutto il libro sembra rappresentare, in questa sezione ottiene i risultati più lampanti. Sempre sotto il segno dell’ambivalenza, allora, sento l’occorrenza di riportare per intero il componimento più indicativo e riuscito della raccolta:

Animazione

 

La stanchezza di pensare è come il morbido

di questo cuscino, che è anche un cedimento di lenzuola,

un tradimento di se stessi, perché si è troppo calmi

e io questo di certo non lo voglio: la mia giornata

è clonarmi in tutto, sentirmi in chiunque, parlare lingue strane

per fare due più due con chi entra in un bar

 

e se due più due per me fa sempre cinque, io divento

la madre nel parco, l’uomo che va in barca,

la sera quando scende a scadenza del tempo:

chissà cosa prova la sera quando scende, ma poi

non è vero che scende: cambia colore, toglie la luce,

ma non è altro che noi che la guardiamo.

 

Non ho nessuna pelle e assomiglio a tutto,

eppure cerco qualcosa che sia io: una pietra o un’idea,

un essere indifeso per essere sicuro che così

lo si ama. Le parole, quelle sane, lasciamole al sudore

di chi un’identità l’ha già trovata, magari tra i bagagli

in un aereo che dia diritto a una vita sola.

 

Bella la parola identità, ma chi ne ha colto il frutto,

povero figlio di te stesso, se lo tiene per sé:

stanne certo come il sangue dei lupi.

 

(p. 44).

Quando il dubbio identitario corrisponde a una fuga più che a un percorso ininterrotto, ecco giungere una meta che si spera definitiva: «ma questa casa è così immaginaria/ da non poter dire con che mente svuotata/ esco dall’auto senza più un desiderio/ e mi consegno soltanto a me stesso,/ a una solitudine ignota ma molto più grande» (Meta, p. 47, vv. 10-14).

La fine della fuga fa i conti con la quotidianità e il rimpianto che anticipa il domani ribadisce l’ambivalenza:

Continuità

Ripassando per una strada un tempo amata e conosciuta

con amici come glia altri che in quella stessa strada

davano al mondo una figura ordinata,

un viso concluso sotto un tunnel di ricordi,

 

vedendo un uomo che ti filtra con lo sguardo

quasi del colore della ringhiera di casa,

puoi non chiederti se il tempo è passato davvero

e il povero cielo vede qualcosa di nuovo,

 

ma di te puoi pensare che un altro giorno è compiuto

che davvero c’è una gru gialla che sposta materiali

che se la notte è oscura è perché nessuno la guarda

che c’è l’asfalto dove l’auto inciampa sempre.

Ma di certo non sai cosa rimpiangerà domani

questo vivere ancora e per sempre,

 

e come sei diventato il guardiano di un oceano

in uno spazio perduto e lontano

dove pochi verranno a disturbarti

e chi ti cerca non sarà un amico.

 

(p.55).

Nella penultima sezione, La vita in lontananza, la dimensione della dimora, la ricerca di essa, si distanzia e prende la figura di un soggetto a cui, nel pieno isolamento, non resta che osservare il mondo nella consapevolezza di non poterne partecipare le manifestazioni più comuni. In questo allontanamento sembra trapelare un’incomprensione del proprio tempo che sfocia in un rifugio nel tempo assoluto del ricordo.

L’altezza monocorde, inoltre – ribadita dalla scelta di una forma per lo più uguale a se stessa, tre, quattro strofe composte da versi lunghi che raccontano sempre il medesimo tema –, si riconosce separata «tra gente che non parla la mia lingua […]» (Invarianza, p. 67, v. 13).

In conclusione è sottolineato definitivamente il distacco: Milano diventa metonimia della società capitalistico-occidentale, i “colleghi” scrittori, i poeti, sono ridotti al niente di cui ognuno è presupposto. Questa “nientificazione” di stampo moralistico, però, non possiede alcuna verve che riconduca ad una fuoriuscita, ad una risposta che tenti di sciogliere i nodi del fare nel nostro mondo annichilito. Se muore la relazione, resta il nichilismo indifferente ad ogni dolore, e la desolazione, riempita di sé, rischia uno sterile solipsismo.

Una poesia del 1830 ci ricorda la nostra precarietà e lo slancio per ciò, che pur essendo caduco, è la nostra unica possibilità:

Mal’aria

 

Amo questo divino sdegno, questo celato,

questo segreto Male, presente in ogni cosa:

nei fiori, nella fonte diafana come vetro,

negli iridati raggi, fin nel cielo di Roma.

Lo stesso firmamento sgombro di nubi, eccelso,

e parimenti il petto leggero e dolce spira,

lo stesso vento caldo che dondola le cime,

lo stesso odor di rose: e tutto questo è Morte!…

 

E chi potrebbe mai dirlo, nella natura

forse v’hanno profumi, colori, suoni e voci

che sono annunciatori per noi dell’ora estrema

e fanno men crudele la nostra ultima pena.

Con essi del Destino l’inviato fatale,

i figli della Terra dalla vita evocando,

come di lieve trama si ricopre la faccia

ed a loro nasconde l’orrenda sua venuta!

(Fëdor Tjutčev, Poesie, Adelphi, Milano 2011, trad. di T. Landolfi, p. 33).

Spero vivamente che il sobrio narrare in versi di Di Spigno, ricco di sapienza e umile moderazione, riesca a ritrovare la strada che sente il contatto col mondo, per continuare ad ascoltare una delle voci più vibranti della poesia italiana contemporanea.

 

 

Febbraio – Marzo 2012

Gianluca D’andrea