
Aldo Nove
II. Addio mio Novecento di Aldo Nove
L’accumulazione verbale è il tentativo memoriale nonché la testimonianza epocale della fuggevolezza. Se il contemporaneo, tempo eterno della scomparsa, riduce il linguaggio alla sua ultima performance nel recupero iper-esposto di ciò che resta dell’umano – nel ricorso al fantasmatico come unica presenza -, allora l’ultima operazione di Aldo Nove riflette la fine della cronologia e s’interroga sull’ineluttabile (eppure direi scontato) annientamento di un ethos. La fase terminale del nichilismo, in Addio mio Novecento, ammicca farraginosa.
Il tempo
Vedo un fiume di gente
scorrere verso la storia.
Il fiume è la memoria
di ognuno. Il resto è il Niente
che lo contiene.
(p. 92)
Da metafore logore come quella nel testo appena letto si srotola la minaccia ambigua, sorta di ricognizione approntata con fiacchezza, di un percorso che si sfibra tra il rimpianto nostalgico (anche se in quarta di copertina appare il riferimento alla fine della memoria, le pagine del libro non spiegano quest’estinzione presunta) e l’accensione aurorale di un nuovo tempo, i cui unici indizi sono rintracciabili nelle referenze religiose, testamentarie, non per questo rinnovabili e riattivate, soprattutto nell’ultima sezione (Un matrimonio).
Un matrimonio
Come nastro di porpora le tue labbra,
pieno di fascino è il tuo deserto*
Cantico dei Cantici, 4,3
Esplodono, orizzonti ma più piano
di un attimo, attraversano
ed è ovunque
il centro dove vanno. Depositano acqua
e ritagli di pietra
leggeri,
che sono una famiglia, tra gli specchi
che da millenni salgono
e scendono, e sono
il movimento, è
noi per sempre
che ne siamo parte,
ciò che diventa,
è il tempo,
è la tua bocca
è il tuo respiro amore
e sono gli occhi
è tutto il mondo
il grembo
* Midhàr significa, in ebraico, deserto.
Nella vulgata greca è tradotto con bocca.
(p. 104)
Le due dimensioni del libro formano un agglomerato in cui passato e futuro, collidendo, dovrebbero definire il presente. Invece di un’eternità della scomparsa, Nove realizza un tempo assoluto che sfugge al momento, auto-riferito, esplicitato nelle proprie cognizioni e ideazioni. Per schermare il “Niente” si tentano nuove definizioni del reale, ma in astratto e il lettore è assorbito dal senso costrittivo dei termini:
Sempre
Non è così che è, ma sempre.
(p. 84)
Reazione espressiva in perdita per un autore che ha vissuto la stagione post-moderna, cadendo infine nella tentazione visionaria della “fine delle ironie”, in una religiosità residuale, imbarazzante, a volte, per semplificazione “metafisicheggiante”:
Lo spazio
Vedila, la metafisica. È una piazza,
ne sei il movimento
che mentre ci passi
si espande. Lì
esiste, soltanto, la piazza,
e vibra nel tempo
e cade una foglia.
Tu lo sai
che nulla è più solo di un posto
e nulla che spieghi una foglia
se ovunque non c’è che universo
(p. 34)
Addio mio Novecento è libro del crepuscolo (come il titolo stesso indica nel suo richiamo, purtroppo capzioso, alla divinità cui sembra affidata la storia personale e collettiva e a cui sembra raccomandarsi il distanziamento nella scomparsa del tempo e della memoria) in cui la cifra caratteristica specifica, la costruzione asindetica, ha come conseguenza la resa singhiozzante di un messaggio dalla sintassi opaca. Il linguaggio aspira a un’elevazione (anche rispetto ad altri tentativi dell’autore) ma resta radicato al “tempo delle discoteche” (il richiamo è a un testo presente nell’attuale raccolta ma recuperato dal precedente Fuoco su Babilonia! pubblicato da Crocetti nel 2003), cioè al tempo in cui si esaurivano – in attesa di tempi migliori – le facoltà affabulatorie, ammiccanti ma consapevoli, di Aldo Nove.
Addio Mio Novecento
Contro il sogno banale della luce,
il suo volgersi in versi di Den Harrow,
la camicetta scollata m’aprivi
la sera mandarina duck di tutto.
L’amore al tempo delle discoteche
bolliva tra rostri di marzapane
firmati Armani. Io stavo seduto
al centro del pastone verde laser.
Se mai si intravedeva una ragazza,
un pastrano di tette sullo sfondo
metallico del vomito il divano
si trasformava in astronave piccola.
La Naj Oleari che ti bacia sempre.
La Toyota sfrecciava nel silenzio,
i piedi stretti nelle calze Burlington,
galleggiavo molle tra ormoni e guance,
la Isla Bonita, Taffy, Gino Soccio.
(p. 97)
Difficile per un lettore odierno chiudere il libro e non sentire un certo disagio, da abuso retorico, nei confronti di versi come i precedenti o come i seguenti:
Un discorso
Comincia a fare queste dita,
nasce. Un discorso fittissimo di vene
che s’intersecano è il giorno
che scompare e torna.
E questa è una collina,
questa è una mattina.
Nòminale
come fratelli, muovile
sui paesaggi
la mente tace e
ogni fiore,
ogni fiore una terra avrà
(p. 51)
e se, appunto, «ogni fiore» avrà una terra, il “fioretto” per questa raccolta è che ci sia posto per lei nel limbo distanziante di chi è «bambino da millenni», al margine estremo del tramonto di quel Novecento in cui sembra chiedere di voler restare, nell’impotenza affabulatoria.
Fiaba
L’eterno era una festa di paese
e io ero bambino da millenni.
Non lo sapevo che non ero nato
né morto, né vissuto. Solamente
scrivevo su un quaderno a righe che
tu eri proprio bella, a quella festa
che respirava ovunque.
(p. 102)
jovanottiana, sic et simpliciter.
Gianluca D’Andrea
(Gennaio 2015)