
Una scena dal film L’AMORE BUGIARDO – GONE GIRL
di Francesco Torre
L’AMORE BUGIARDO – GONE GIRL
Regia di David Fincher. Con Ben Affleck (Nick), Rosamund Pike (Amy), Kim Dickens (detective Bonie), Carrie Coon (Margo).
Usa 2014, 145’.
Distribuzione: 20th Century Fox.
Reale e simbolico, perturbante e ipnotico, L’amore bugiardo di David Fincher ha l’ambizione di esplorare con coraggio e lucidità linguistica il potere mitico che soggiace alle mediatiche tragedie contemporanee. Narcisismo, doppie identità, conformismo, schiavitù intellettuale: nulla sembra sfuggire all’occhio esterno del regista che, con l’abilità di un prestigiatore, porta avanti l’intreccio garantendo la massima tensione nonostante l’azione accada in realtà fuori campo, nel passato o nel futuro, nella memoria o nella fantasia dei personaggi, da qualche parte o addirittura da nessuna parte.
Misteriosa scomparsa nel Missouri. Nel giorno del suo quinto anniversario di matrimonio, una donna svanisce nel nulla. La Polizia indaga, i media giudicano: il marito è un bugiardo seriale e nasconde un segreto. Dietro le apparenze, però, un’altra verità emerge all’ombra di un radicato sentimento di vendetta.
La prima parte del film è la sublimazione di un’intera carriera. Fincher mescola la misantropia, il mito della perfezione, l’onia cosmica di Fight Club con l’estetica digitale, stilizzata e bidimensionale dei suoi lavori più maturi (Zodiac e Social Network), scegliendo come forma e voce del racconto l’epos di House of Cards. Il bersaglio è evidente (il mito della coppia perfetta), le direttive semantiche pure: il sesso subordinato al potere, l’amore all’orgoglio, e la natura umana ormai racchiusa dentro una matrioska la cui apertura è possibile solo tramite la pubblica condanna di private oscenità. Un perfetto racconto amorale, dunque, in cui la conoscenza non necessariamente porta saggezza ma sicuramente aggiunge dolore al dolore e copre maschere con altre maschere in un infinito gioco di specchi.
Terminato il montaggio alternato e ristabilita un’unità del racconto, però, tale equilibrio sembra venire meno: l’incoerenza di alcuni passaggi narrativi rasenta l’offesa all’intelligenza del pubblico e l’istinto primordiale di Fincher per i barocchismi e gli inganni formali prende letteralmente il sopravvento sull’autentica riflessione linguistica come non succedeva da The Game in poi.
Potente e ambiguo, seppure forse eccessivamente nutrito da astratta, intellettuale gloria postmoderna, il cinema di Fincher cerca e infine trova anche qui anfratti inquietanti, confusi e preoccupanti della società occidentale, meritando senz’altro una seconda visione. La sensazione, però, è che senza uno spiraglio per l’umana comprensione, tanta retorica ideologica possa implodere in se stessa senza lasciare traccia né memoria.
La citazione: “Quanto siamo belli? Da prenderci a pugni in faccia”.
Questo articolo è stato già pubblicato sul “Quotidiano di Sicilia” del 18/12/2014