
Eugenio Montale in una fioreria di Milano, nel settembre del 1972. (Keystone/Getty Images)
di Gianluca D’Andrea
Eugenio Montale: una poesia da Diario del ’71 e del ’72 (1973)
A questo punto
A questo punto smetti
dice l’ombra.
T’ho accompagnato in guerra e in pace e anche
nell’intermedio,
sono stata per te l’esaltazione e il tedio,
t’ho insufflato virtù che non possiedi,
vizi che non avevi. Se ora mi stacco
da te non avrai pena, sarai lieve
più delle foglie, mobile come il vento.
Devo alzare la maschera, io sono il tuo pensiero,
sono il tuo in-necessario, l’inutile tua scorza.
A questo punto smetti, strappati dal mio fiato
e cammina nel cielo come un razzo.
C’è ancora qualche lume all’orizzonte
e chi lo vede non è un pazzo, è solo
un uomo e tu intendevi di non esserlo
per amore di un’ombra. T’ho ingannato
ma ora ti dico a questo punto smetti.
Il tuo peggio e il tuo meglio non t’appartengono
e per quello che avrai puoi fare a meno
di un’ombra. A questo punto
guarda con i tuoi occhi e anche senz’occhi.
Postilla:
S’interrompe il dialogo con l’ombra? Più probabilmente è la dialettica il rischio, la possibilità della comunicazione con un’alterità inconoscibile. Svestiti i panni metafisici della relazione – la lirica è il postumo di una sbornia plurisecolare? – tu e io coincidono nella tensione spettrale, o meglio nella fitta rete di un nuovo velamento: l’attuale dispositivo relazionale (offerto proprio da una rete) tanto fantasmatico quanto collettivo. Ecco perché la chiusa – «guarda con i tuoi occhi e anche senz’occhi» – agisce come un nuovo annuncio, presupposto indispensabile per chi – come noi? – obnubilato dalla matassa di un reale che non concede spazio, se non illusorio, all’identità, deve ritrovare la forza di esperire il mondo. Esperire, già, perché lo sguardo non sembra più sufficiente a orientarsi nel groviglio spaventoso dei nuovi paesaggi relazionali.
Interpretazione postuma di un testo posteriore, che non vuole considerare i virtuosismi interni e ama prolungare il senso, deformandolo. Un senso che, nella sua gravità, apre spiragli a una diversa percezione: «sarai lieve / più delle foglie, mobile come il vento», per cui è il soggetto che scopre nell’angoscia – scomparsa ogni paratia metafisica – della sua solitudine l’unica effettività, la trasformazione ineluttabile che lo agisce in quanto essere di materia.
Oggi sappiamo quanto ancora distante sia la possibilità di camminare «nel cielo come un razzo», perché l’orizzonte è assai più ristretto e quasi concentrato su un’individualità implosa, ma il «lume» di altre prospettive balugina, e proprio dagli strascichi di quell’ombra che Montale finge di annientare, ma che rende in fin dei conti più viva, facendole parlare di un distacco che la lega più profondamente al soggetto, alla sua assenza. Nella potenza che si apre fuori dalla coscienza degli uomini, o meglio, fuori dalla coscienza di essere uomini. Perché non «è solo un uomo» l’essere futuro ma, ribaltata definitivamente ogni trascendenza, è l’essere nella sua potenzialità metamorfica, come se la trasfigurazione fosse solo una vicenda comune (e forse lo è: la mutazione di un gene o lo spostamento immane e impercettibile di onde gravitazionali), la storia quotidiana che il nostro sguardo si ostina a non cogliere, nel suo strabismo impaurito e, con ogni probabilità, autoimposto.