
Monumento di Giacomo Leopardi a Recanati (particolare)
di Gianluca D’Andrea
Giacomo Leopardi: una poesia dai Canti
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Postilla:
Chi dice che quella carezza non sia grazia angosciosa? “Carus”, prezioso perché carente: si apre il desiderio dell’assenza. Mentre tutto il Novecento fa i conti con la caduta, circa due secoli fa Leopardi se ne innamorava, per necessità – perché esiste qualcosa di diverso? per cui la tensione desiderante si amalgama alla contingenza – nel suo colle “vuoto”, non semplicemente solitario. Le referenze ci sono e non ci sono: nella chiusura (“la siepe”) che è anche il massimo di apertura. In questa visione divaricata, tesa allo slabbro definitivo (“ultimo”), l’oltranza coincide col suo limite e, finalmente, chiude fuori da sé l’osservatore. Il soggetto è sospinto al suo margine risolutivo, collima col suo atto di esaustione (l’atto stesso dello stare seduto). Il soggetto assente – passivo? – non guarda più ma si meraviglia per possibilità inaudite, inverificabili da chi, pur immerso nel quadro, ne vive il margine. Fuori dalla chiusura, fuori dall’uomo (“sovrumani”, cioè presso, accanto allo stesso concetto di uomo) – o meglio, presso l’uomo. E cosa c’è presso l’uomo se non la sua ombra? si dilegua un termine ma si allarga un nuovo spazio. Quindi ancora la tranquillità, il riposo così pertinente all’esausto (lo studioso Leopardi dalle infinite possibilità vs la persona fisica e sociale attualizzata dalle sue “difformità”) che, nell’otium, plasma una nuova forma – nuove forme – giocando e impastandosi in una diversa finzione. «Io nel pensier mi fingo», il soggetto si ri-forma nel pensiero oltre il mondo ma non lontano da esso. Lo spauracchio è il “monstrum” che allarma ogni vibrazione del sentire, fino alla fusione complessiva tra eterno e contingente, natura e cultura (“eterno”, “morte stagioni”, “vento”, “voce”) in un unico, non lineare presente.
Fuori misura, fuori peso («s’annega il pensier mio») si rompe finalmente l’attrito tra individuo e contesto – io e altro – nell’immersione definitiva (che non è una morte o anche), accettazione della possibilità di essere parte di tutta l’inezia del nostro essere.