
Ralph Fiennes in una scena del film A BIGGER SPLASH
di Francesco Torre
A BIGGER SPLASH
Regia di Luca Guadagnino. Con Tilda Swinton (Marianne Lane), Matthias Schoenaerts (Paul), Ralph Fiennes (Harry), Dakota Johnson (Penelope), Corrado Guzzanti (Maresciallo).
Italia/Francia 2015, 120’.
Distribuzione: Lucky Red.
Se «tutto nel mondo è burla», come si dice nel finale del Falstaff di Verdi – ampiamente saccheggiato in questo eccentrico e ambizioso remake de “La Piscina” di Jacques Deray (1969) – per Luca Guadagnino tale burla ha i connotati di una menzogna violenta e brutale: violenta come il paesaggio secco e duro di un’isola vulcanica, come il conformismo, come il desiderio sessuale; brutale come il rock degli Stones, come un incesto, come la tratta dei clandestini nel Mediterraneo.
Tutto si svolge a Pantelleria, eccetto qualche squarcio nel passato dei protagonisti. Qui, la leggenda del rock Marianne Lane è in vacanza con il compagno Paul, documentarista in crisi di autostima. Un tentativo di suicidio alle spalle lui, un grave problema alle corde vocali lei. Villa con dammuso, sesso in piscina, corpi spalmati coi fanghi e poi placidamente essiccati al sole. Una vita fuori dal tempo e dalla Storia. L’idillio, però, viene bruscamente interrotto dall’arrivo di Harry, logorroico e carismatico produttore discografico, ex compagno di Marianne. Il trillo del telefonino, l’ombra di un aereo: ecco la civiltà, preannuncio di atroci misfatti, o quantomeno di palpabili tensioni sessuali. Mefistofelicamente, Harry infatti lascia avanzare tra i sentieri dei rancori e dei rimpianti un serpente tentatore, la giovanissima figlia naturale Penelope, conosciuta e riconosciuta solo da poco tempo. Il suo incedere verso la distruzione dei difficili equilibri di coppia significherà per Marianne e Paul la definitiva cacciata dall’Eden e contemporaneamente l’ingresso nella barbarie contemporanea.
Jump cut, zoomate improvvise, filtri colorati, panoramiche a 360°, bruschi movimenti con camera a spalla. La prima parte del film è una sorpresa continua. Guadagnino osa molto mostrando coraggio e talento, anche se francamente alcune soluzioni risultano del tutto superflue sia all’economia della storia che alla costruzione di un’identità autoriale riconoscibile. Qualsiasi parallelismo di ordine estetico con il film di Deray viene comunque sin da subito bandito, anzi il regista sembra giocare ad una perfetta decostruzione di quel modello linguistico definito già allora con disprezzo cinéma de papa. Nessun rigore (est)etico, rottura dell’ordine spazio-temporale degli eventi, piena libertà espressiva. Ogni riferimento alla Nouvelle Vague, ovviamente, non è puramente casuale, anche se nella seconda parte il meccanismo retorico retrostante l’impalcatura strutturale del film viene prepotentemente esposto in primo piano, il caos procurato dall’azione multidirezionale dei protagonisti nello spazio diventa progressione drammatica al servizio di una definita visione sociologica e antropologica della realtà, il giudizio sui personaggi – fin qui sospeso – viene emesso con sentenza inappellabile.
Due film in uno, insomma? Forse, ma non necessariamente. Se è vero, infatti, che l’unica vera svolta narrativa posta ai 2/3 del film (enfatizzata come in una pièce di Tennessee Williams dall’arrivo di un fortissimo vento distruttivo, cui farà da contraltare la pioggia purificatrice sul finale) comporta una virata per certi versi inspiegabile nei territori del più cupo melodramma a tesi, pure la dimensione del racconto (a)morale, del pamphlet sulla brutalità dell’essere umano era pienamente seminata, anche se mimeticamente, se vogliamo anche sibillinamente, nell’arco di tutta la rappresentazione. Al di là, infatti, dei riferimenti più espliciti, forse anche abbastanza grossolani, sparpagliati qua e là piuttosto confusamente (il tatuaggio falce e martello sul petto di Harry, la domestica che canta “Bedda ciao” – a proposito, gli autoctoni parlano tutti un siciliano abbastanza misterioso, la ripetuta apparizione di un serpente), il continuo e perverso gioco di seduzione e umiliazione che coinvolge le due coppie si incastra all’interno di una messa in scena che, abbandonato ogni psicologismo, trasforma frequentemente i personaggi in archetipi. Nella lunga e spettacolare scena di ballo in cui Fiennes viene pedinato dall’interno all’esterno della villa e poi inquadrato dal basso verso l’alto e incorniciato dai raggi solari, per esempio, dietro un’apparente esplosione di libertà è difficile non scorgere la definizione di un approccio di stampo superomistico all’esistenza, una maschera auto-costruita che produce instabilità emotiva e insoddisfazione, ma che viene abilmente esibita come attraente biglietto da visita e, più importante, come arma per il dominio sul prossimo in uno schema sociale basato sull’impossibilità di rapporti di uguaglianza. Quanto questo interessi al regista più che i destini dei singoli personaggi è evidente nel finale, quando la tragedia si compie non per gelosia o vendetta, ma solo perché Harry non sopporta, letteralmente, di essere “tollerato” da Paul. Concetto ripreso con vigore successivamente, quando con la frase «Cerca di non prenderla male», prima il personaggio di Marianne, poi quello di Penelope usano la stessa arma per definire il proprio ruolo in un’infinita guerra tra simili per determinare l’elemento più forte, da porre in cima alla piramide e addirittura al di sopra della legge, e quello più fragile, da abbandonare ad un destino di miseria e sconforto.
E chi sono gli esseri umani più fragili dei nostri tempi? Quando Guadagnino allarga il campo visivo e mostra l’isola (la cui forza primigenia, come in “Stromboli” di Rossellini, sembra attrarre misteriosamente tutti coloro che vivono nella sua sfera di influenza) nella sua dimensione più attuale e ordinaria, ecco che il gioco della finzione, o della “burla” per citare ancora Falstaff, si rompe definitivamente. Scorci del mondo ordinario di Pantelleria ci erano già stati mostrati in precedenza: un ristorante alla buona, la festa patronale, un’anziana che prepara la ricotta. Un universo ancora non pienamente colonizzato dalla contemporaneità, con una propria vita – al di là e al di fuori dei protagonisti – che emerge con prepotenza sul contesto narrativo e risulta molto più interessante e autentica della magniloquente costruzione filmica cui il regista ci sottopone. Di contro, la Pantelleria rappresentata nel finale è del tutto funzionale alla struttura principale, anzi ne rivela esplicitamente il sottotesto fungendo da cassa di risonanza dei moralismi in essa contenuti. Tramite il personaggio del ridicolo maresciallo dei Carabinieri interpretato da Corrado Guzzanti (oggettivamente abbastanza inverosimile e del tutto straniante) Guadagnino trasforma acriticamente il ceto medio in ceto mediocre, e seppellisce con una risata ogni possibilità di equilibrio organico all’interno di una società globalizzata ormai totalmente inchinata di fronte al successo e al potere, e al contrario violenta e brutale, quando non totalmente indifferente, nei confronti degli ultimi della Storia: i migranti del Mediterraneo.