BABADOOK

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Giuseppe Balestra, Babadook (particolare – Fonte: Bad Tribute)

di Francesco Torre

BABADOOK

Regia di Jennifer Kent. Con Essie Davis (Amelia), Noah Wiseman (Samuel).
Australia 2014, 95’.

Distribuzione: Koch Media.

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Amelia lavora in un ospizio. Prima scriveva libri per bambini ma da quando il marito è morto in un incidente d’auto, proprio mentre la trasportava in ospedale per il parto del piccolo Samuel, la sua vita è profondamente mutata. Rimasta sola, è tormentata dall’invidia sociale e dal desiderio sessuale, riversa la rabbia sul figlio e la impasta di amore materno, umilia il bambino davanti agli estranei ma poi a scuola nega che abbia disturbi comportamentali. Dentro di sé cova l’orrore, una gigantesca rimozione che la fa vivere fluttuando in un limbo di luce e d’aria, ora immersa nelle tenebre, come in un soffocante incubo ad occhi aperti, ora illuminata da intermittenti, salvifici raggi di sole, e così d’altra parte la regista australiana Jennifer Kent ce la mostra nelle immagini d’apertura del film.
Non certo a digiuno di psicoanalisi, l’autrice – qui all’esordio – sceglie la strada delle allucinazioni, della dissociazione, della psicosi, trasformando un caso clinico in un racconto di angoscia e dolore, a tratti anche terrorizzante. L’aggancio con il classico repertorio dell’horror è evidente: il mostro nascosto dentro l’armadio; il bambino dal volto pallido e con le occhiaie; una colonna sonora dall’andamento strisciante, macabro richiamo evocativo del “maligno”; tende semoventi, porte chiuse che si spalancano improvvisamente, sfocati e zoom. Ma l’origine di questi espedienti narrativi e figurativi non risiede al di fuori del controllo dei protagonisti, anzi. L’insonnia, la solitudine, la difficoltà della cura dei figli, il peso insopportabile del dolore sono eventi psicologici del tutto comuni (e non solo in contesti familiari disgregati) ed è proprio dall’incapacità di gestire questi disagi che nasce e prospera Babadook, mostro con cappello a cilindro e artigli taglienti, che appare quando il suo nome è cantato tre volte e che, una volta entrato in una casa, non mostra alcun desiderio di lasciarla seminando morte e distruzione.
É in questo difficile equilibrio tra la realtà sensibile, epistemicamente riconoscibile, e l’universo parallelo delle illusioni metafisiche, che il film trova il suo carattere di originalità e un grande motivo di interesse. Non solo per la capacità di far camminare in maniera lineare, contigua e allo stesso tempo ambigua, come in un perfetto incastro, i concreti turbamenti di una madre vedova e il precipizio tutto mentale del suo ritorno del rimosso.
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Ma anche per le soluzioni tecnico-narrative adottate e l’insospettabile approdo a territori meta-cinematografici. Benché all’inizio si fatichi ad accettare l’idea dell’esistenza di una pubblicazione così macabra come il libro pop-up “Mister Babadook” (che peraltro, a quanto pare, verrà realmente messo in vendita, chissà se con lo stesso mostruoso contenuto), pure lo spunto risulterà geniale come espediente mentale utilizzato da Amelia per fare emergere i dissidi interiori e portarli al massimo grado dell’esasperazione emotiva, procedendo verso il totale collasso nervoso e una violenta crisi dissociativa. Il bianco e nero dell’illustrazione, poi, si rivelerà non solo un abile strumento di creazione della tensione, ma anche un sicuro punto di collegamento con certa produzione cinematografica del passato, dagli horror Universal ai film di Mario Bava fino ad arrivare alle grandi invenzioni di Georges Méliès, citazioni esplicite che solo superficialmente possono essere lette nell’ottica dell’omaggio. Il ricorso al tema della magia, che caratterizza in maniera così forte il personaggio del piccolo Samuel, stabilisce d’altra parte sin da subito la presenza sotterranea di un riferimento neanche troppo celato a temi di carattere ontologico come l’insopprimibile necessità di una ricostruzione fittizia della realtà e la genesi dell’arte della rappresentazione. Ecco allora che il percorso inconscio imboccato da Amelia per trasfigurare le proprie pulsioni emotive (relegandole infine nello scantinato della sua memoria sensibile, in un finale del tutto compromissorio) è del tutto assimilabile all’azione creativa dei grandi produttori di immagini meravigliose e perturbanti della storia del cinema. Regista della propria narrazione mentale, Amelia costringe così il piccolo Samuel a vivere lucidamente l’esperienza di spettatore emotivamente coinvolto, che si nutre delle ossessioni visive della madre fino ad introiettarle. A dimostrazione di come la magica ed eterna simbiosi tra pubblico e schermo cinematografico si fondi anche e soprattutto su un irrimediabile desiderio di riconciliazione col proprio vissuto.

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La citazione: «Io sono la mamma e tu il figlio per cui prendi la pasticca».

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