
Helen Mirren in una scena del film WOMAN IN GOLD (© ROBERT VIGALSKY/THE WEINSTEIN COMPANY)
di Francesco Torre
WOMAN IN GOLD
Regia di Simon Curtis. Con Helen Mirren (Maria Altmann), Ryan Reynolds (Randol Schoenberg), Daniel Brühl (Hubertus Czernin), Katie Holmes (Pam), Moritz Bleibtreu (Gustav Klimt).
GB/Usa 2015, 110’.
Distribuzione: Eagle Pictures.
Nella Vienna dei primi del Novecento, Adele Bloch-Bauer è la principale animatrice di un ambito salotto artistico e letterario. Il suo elegante appartamento in Elisabethstrasse è frequentato da Mahler e Schnitzler e adornato da quadri di Klimt, tra cui uno splendido ritratto della padrona di casa, raffigurata come una regina egiziana, piena d’oro e di gioielli.
Nella Los Angeles a cavallo del nuovo millennio, la donna rivive nell’affettuosissimo e mai sbiadito ricordo della nipote, Maria Altmann, pronta a sfidare la burocrazia austriaca e le leggi internazionali per riportare quel dipinto, esposto al Belvedere di Vienna e divenuto gloria nazionale, tra i cimeli di famiglia.
Tra i due eventi, un secolo e l’ombra cupa del suo più tragico evento, la Shoah, di cui il quadro di Klimt diventa in qualche modo il simbolo. Disintegrata fisicamente, infatti, la famiglia dei Bloch-Bauer lo fu anche nella memoria quando i nazifascisti, dopo aver saccheggiato la loro casa, trafugarono i Klimt e trasformarono il nome del ritratto nel più impersonale “La Dama in Oro”. Un’umiliazione cui l’anziana Maria Altmann, scoperti i vani tentativi della defunta sorella di affermare i diritti di famiglia su quel dipinto, cercherà in tutti i modi di porre rimedio, nonostante la chiusura del governo austriaco.
La battaglia dell’ebrea Maria Altmann e del suo avvocato Randy Schönberg (anch’egli di origine austriaca, nipote addirittura del grande compositore) per affermare un contestato diritto di proprietà sul “Ritratto di Adele Bloch-Bauer I” di Gustav Klimt – ora alla Neue Galerie di New York, dopo una vendita dal valore di 135 milioni di dollari – è una storia vera già abbastanza nota al pubblico di massa (ne è stato tratto più di un documentario). Una vicenda del tutto edificante, che intreccia una grande storia personale (quella di Maria Altmann, fuggita giovanissima dall’Austria con il marito poche settimane dopo il cosiddetto “Anschluss”) con un fondamentale evento della Storia mondiale. La sceneggiatura di Alexi Kaye Campbell e la regia di Simon Curtis (per lui un altro profilo biografico dopo “Marilyn”) provano a coglierne gli aspetti di grande spettacolarità e insieme di più intima compassione umana, ma finiscono per illustrare personaggi e situazioni con sguardo manicheo, scivolando – come purtroppo è d’uopo in questi casi – nella retorica memoriale e nell’aneddotica, e annacquando la linea narrativa centrale, quella cioè riguardante la battaglia legale, con un fiume di lunghissimi flashback.
Il modello di riferimento, chiaramente, è “Philomena” di Stephen Frears, ma il film risulta totalmente privo di ironia, l’arco di trasformazione dei due protagonisti (entrambi nell’impossibilità iniziale di creare un dialogo con il proprio passato e la famiglia di appartenenza) troppo prevedibile e drammaturgicamente perfetto per generare vera empatia, e la regia infine – che pure potrebbe contare su due assoluti capolavori artistici: il dipinto di Klimt e Helen Mirren – atona, appiattita su una confezione formale standardizzata, mai interessata a smarcarsi dal repertorio del già visto. Limiti di un’operazione mediatica su vasto raggio del tutto allergica ad ogni sussulto autoriale.