
Una scena dal film SOUTHPAW – L’ULTIMA SFIDA
di Francesco Torre
SOUTHPAW – L’ULTIMA SFIDA
Regia di Antoine Fuqua. Con Jake Gyllenhaal, Forest Whitaker, Rachel McAdams, 50 Cent
Usa 2015, 124’.
Distribuzione: 01.
Dall’orfanotrofio al campionato mondiale dei pesi medi, Billy Hope (nomen omen) è un simbolo vivente dell’American dream. Eroe introverso e gentile, sul ring deve prima assorbire una gran quantità di colpi dall’avversario per far crescere dentro di sé la rabbia e lasciarla poi esplodere con tutto il suo carico di violenza. Uno schema che dovrà subire anche al di fuori della pratica sportiva. Quando l’amata moglie Maureen morirà tra le sua braccia a seguito di una rissa con annessa sparatoria (provocata dal pugile colombiano Escobar, che via via nel corso del film toglierà a Billy l’allenatore, l’agente e la cintura mondiale dei pesi medi), il colpo non sarà sufficiente per garantire al campione una reazione vincente. Come in un incontro di boxe, egli dovrà prima essere catapultato all’interno di una spirale autodistruttiva, vedere il baratro, trasformarsi in una maschera tragica per poi con forza recuperare il terreno perduto e conquistare infine la sudata vittoria.
Il rituale della vestizione, la telecronaca durante gli incontri, l’incontro col mentore, la formazione umana con pugili più giovani, e poi le soggettive sfocate, i flashback, i rallenty in apertura di scena, la molteplicità dei punti di vista e perfino il montaggio alternato con l’avversario negli allenamenti pre-gara. Sia dal punto di vista narrativo che tecnico, “Southpaw” ripercorre pressoché fedelmente topoi e stilemi di quel potente sottogenere cinematografico che è il film di boxe (con evidenti richiami all’epopea di “Rocky”). In questo senso, abbastanza vani i tentativi del regista e produttore Antoine Fuqua (“Training Day”, “The Equalizer”, ora prossimo a dirigere, sempre con l’attore feticcio Denzel Washington, il remake de “I Magnifici Sette”) di imprimere al racconto segni grafici innovativi, originali. Il suo stile eclettico, composto ora dall’insistito uso della camera a spalla, ora da riprese geometriche e morbidi movimenti di macchina, alterna momenti di esaltazione e riposo in maniera perfettamente simmetrica all’arco di trasformazione del protagonista, giocando troppo convenzionalmente con la fotografia (tutta la sequenza centrale della crisi di Billy, con la perdita della licenza, della casa e, cosa più grave, dell’affidamento della figlia, è dominata da una quasi totale assenza di luce) e manifestando una grande insicurezza nella messa in scena delle dinamiche psicologiche, soprattutto nella traiettoria dominante per la creazione della tensione emotiva del film e per il destino del protagonista, quella cioè tra padre e figlia.
La sceneggiatura, d’altra parte, non lo aiuta, anzi. Dell’avversario sportivo, nonché principale responsabile della morte di Maureen, si limita a mostrarci il volto da colombiano e i modi da gangster, senza mai esplorarne la dimensione interiore. Con la stessa superficiale esigenza di funzionalità, non giustifica poi adeguatamente nemmeno l’immediata débâcle finanziaria di Billy (il commercialista gli dice «sai, le tasse, lo stile di vita, la manutenzione della villa», e sembra quasi di risentire Gigi Proietti in quella splendida gag in cui un usuraio al telefono con la madre motivava le proprie pretese elencando «l’Iva, l’uva… l’ova»), così come lo schizofrenico alternarsi delle reazioni di amore e odio della figlia assegnata temporaneamente ai servizi sociali. Infine, cosa oggettivamente più grave, costruisce sin dall’inizio un classico schema narrativo di vendetta personale (quasi un western crepuscolare, oltretutto con venature reazionarie in termini di gender ed etnie, che trasforma Billy in una sorta di martire nazionale) per poi virare con eccessi di sentimentalismo e retorica verso un più progressista percorso di riscatto umano (parabola ridondante che riporta alla memoria il buonismo di “Mi chiamo Sam”). L’ambiguità tra le due anime del film (forse generata dal fatto che il film era stato scritto per Eminem e poi riadattato dopo il suo rifiuto) rimane purtroppo irrisolta fino al termine del racconto e depotenzia tutto il terzo atto, privandolo della necessaria tensione emotiva.
Encomiabile comunque lo sforzo di Jake Gyllenhall, che riesce con la sua interpretazione nello sforzo di distrarre dalle debolezze produttive.
La citazione: «Mi gioco la mia famiglia. Non posso perdere mia figlia».