NO ESCAPE – COLPO DI STATO

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Una scena dal film NO ESCAPE – COLPO DI STATO

di Francesco Torre

NO ESCAPE – COLPO DI STATO

Regia di John Erick Dowdle. Con Owen Wilson (Jack Dwyer), Lake Bell (Annie Dwyer), Pierce Brosnan (Hammond).
Usa 2015, 101’.

Distribuzione: M2 Pictures.

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Rimasto senza lavoro a causa di un fallimento societario, Jack Dwyer non è nelle condizioni di rifiutare un buon contratto con una ditta di ingegneria civile che si occupa di progetti idrici, anche se questo comporta lo spostamento di tutta la sua famiglia nello sconosciuto contesto di un paese del sud-est asiatico. Poche ore dopo l’atterraggio e senza alcuna notizia da parte dei committenti, si infila nell’intricato labirinto di strade della nuova città alla ricerca di un quotidiano americano, ma si imbatte in una violentissima azione di guerriglia armata e assiste persino alla barbara uccisione di un connazionale. Un colpo di stato è in atto, e il suo unico obiettivo sarà portare in salvo se stesso e la propria famiglia al di là dei confini nazionali.
Lo spaesamento di fronte a ciò che non si conosce, la paura di cambiare abitudini, la necessità di essere ottimisti anche quando nel cuore prevale la disperazione. Il primo approccio della texana famiglia Dwyer (marito, moglie e due bambine) con il “nuovo mondo” è racchiuso in poche sequenze, ma probabilmente sono le più dense di tutte il film. Quando la macchina da presa pedina Owen Wilson per le vie della città in cui sa che dovrà condurre la sua nuova esistenza – tra un soldino dato a dei suonatori di strada, il passaggio in un mercato del pesce all’aperto, la muta conversazione con l’edicolante – il suo imbarazzato disagio è quello dell’uomo bianco occidentale di fronte al diverso, e contiene tutti i germi dell’impossibile integrazione contemporanea tra i popoli.
La sorprendente esplosione di violenza, però, cambia drasticamente il tono del racconto e non lascia spazio ad alcun tipo di riflessione – anche simbolica – sui temi culturali sopra accennati. Con un’improvvisa quanto irreversibile regressione, il frenetico e spesso barbaro percorso d’azione e resistenza cui saranno costretti i protagonisti assume esclusivamente i contorni di un’ancestrale lotta per la sopravvivenza, supportata al limite da semplicistiche, blande e comunque poco circostanziate accuse all’imperialismo occidentale come prima radice dell’odio tra i popoli.
Sceneggiatore e regista, Dowdle mostra di conoscere bene i territori dell’action e dell’horror. Nonostante un eccessivo uso del rallenty, la parte centrale del film è carica di tensione, non ammette ellissi (fosse anche il tempo di un ascensore che ricongiunge il padre alla propria famiglia) né indugia su particolari macabri, contiene una vertiginosa, visivamente ed emotivamente impegnativa sequenza su un tetto e gioca abbastanza bene la partita tecnica della gestione delle luci (soprattutto nelle scene notturne) come quella dell’inedita presenza di Wilson in un ruolo drammatico.
Privo di dialettica (politica, morale, visuale) e con l’unica esigenza di giungere nella maniera più efficace all’inesorabile happy end, lo script però nel terzo atto abbandona definitivamente lo stile di ripresa ultra-realistico che aveva caratterizzato i momenti migliori, abbracciando alcuni stereotipi del genere (per esempio la presenza di un improbabile deus ex machina, Hammond, il personaggio maggiormente irrisolto di tutto il film, destinato a compiere un’ingiustificabile scelta di martirio), trasformando la gentile madre occidentale in una sottospecie di Rambo e facendo infine coincidere, con una disinvoltura sul piano storico su cui ci sarebbe da riflettere, la salvezza dei protagonisti americani con l’arrivo in territorio vietnamita.

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