INSIDE OUT

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di Francesco Torre

INSIDE OUT

Regia di Pete Docter.
Usa 2015, 94’.

Distribuzione: Walt Disney.

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Riley ha 11 anni ed è l’unica figlia di una classica coppia borghese WASP americana, in trasloco dal Minnesota a San Francisco. Niente auto, robot o animali parlanti accolgono il suo arrivo, nessun supereroe accompagna le sue avventure. Nel suo orizzonte narrativo, solo sprazzi di ordinaria vita di città: una nuova scuola, gli allenamenti di hockey e la nostalgia della vita di un tempo. In compenso, però, dentro il suo cervello succede di tutto. Lì, le emozioni primarie influenzano ogni azione, guidando di fatto il destino della bambina. In tutto sono cinque e hanno le sembianze di colorati pupazzi digitali: Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Osservano il mondo attraverso gli occhi di Riley come se fossero all’interno di una navicella spaziale, e manipolano ogni reazione tramite una pulsantiera, non sempre in modo consensuale. Ovviamente, entro i confini della mente della piccola non sono gli unici abitanti. Intorno a loro c’è un intero paesaggio di pensieri e ricordi fluttuanti, esperienze consegnate alla “sala di controllo” sotto forma di palle da bowling. Alcune di esse devono essere preservate e difese più di ogni altra cosa: sono le memorie centrali, e sono queste – sostiene il film – a costruire la personalità di un essere umano.
Pregevole per dettagli visivi, composizione delle inquadrature e scelte di découpage (un vero e proprio montaggio delle attrazioni), l’incipit di “Inside Out” si muove sinuosamente quanto disinvoltamente tra forma e contenuto, significati e significanti, gestendo nella maniera più trasparente possibile l’enorme mole di informazioni fornite e seminando opportunamente tutti i germi di un futuro percorso di affabulazione. Si potrebbe dire, utilizzando una metafora, un coloratissimo arcobaleno dentro un intricato labirinto, in cui però non si ha mai la sensazione di sentirsi perduti. Il primo pianto subito dopo la venuta al mondo? Ecco l’apparizione di Gioia che porta un sorriso. Un pericolo dietro l’angolo? Nessun problema, c’è Paura che sorveglia. E quando la mamma propone i broccoli? Disgusto farà le barricate. Perché le emozioni ormai anche nel rinnovato immaginario Disney si trovano nel cervello, mentre al cuore, organo vintage, non rimane che un ruolo da comprimario in un cortometraggio (“Lava”, proiettato prima di “Inside Out”) utile solo a fare da antipasto per il piatto principale.
In questo senso, d’altra parte, scomodare Freud o Oliver Sacks potrebbe essere fuorviante, perché il mondo iperfunzionale messo in scena da Pete Docter, già autore di due eccellenti regie Pixar (“Monsters & Co.” e “Up”), non prende mai seriamente in considerazione l’idea di rappresentare la complessità dei processi mentali, né di operare al fine di una divulgazione delle principali acquisizioni delle scienze comportamentali e cognitive. Lo si comprende fin da subito, da quando cioè il film ci mostra il primo sguardo di Riley sul mondo e la conseguente apparizione di Gioia, già investita di un ruolo di leadership. Come poter pensare di “addomesticare” l’urlo di un bambino appena nato credendo che si tratti di una miscela di paura e rabbia? Quel pianto di fame di vita sta – per dirla in termini sinestetici – in un’altra tavolozza, assieme ad altre forze primordiali, all’istinto di sopravvivenza, al desiderio, all’affermazione di sé, a quel senso cosmico dell’infinito che attraversa ogni fase dell’infanzia. E nonostante i realizzatori ce la mettano tutta per adornare il film con rendering piacevoli e intelligenti, creando peraltro un interessante dialogo tra dentro e fuori, tra pensiero e azione e tra azione e reazione (con la compresenza di due linee narrative tessute come una ragnatela su due tronchi dello stesso albero concettuale), pure il mistero e la meraviglia della vita, gli slanci e gli abbandoni, la costruzione del senso di sé come pure della propria identità sessuale stanno costantemente fuori da ogni singola inquadratura, sostituiti da un più banale ménage di problem solving all’interno di un paesaggio interiore che include in maniera manichea la famiglia, lo sport, l’onestà, ma non – per esempio – la sorpresa o il disprezzo: forse che Caino non è mai stato bambino?

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Una scena dal film INSIDE OUT

Se questo eccesso di semplificazione, unito ad un pervicace intento moralizzatore (che nei precedenti film di Docter era oggettivamente meno incisivo, seppur nella ristretta gamma di sfumature offerta dall’universo Disney), genera effetti disturbanti e destabilizzanti nei confronti di un pubblico più culturalmente inquieto, ideologizzato o meno, c’è anche da aspettarselo. Il film, d’altra parte, non fa mistero di rivolgersi ad un diverso target di riferimento, come dimostra la totale assenza di prodotti culturali nella vita esterna di Riley: l’unica connessione musicale della sua vita è rappresentata dal refrain di uno spot pubblicitario, e per tutta la durata della proiezione neanche per errore è possibile scorgere sullo schermo la copertina di un libro. Molto meno scontato, però, è che in una produzione con un tasso così elevato di massificazione a livello globale, debolezze concettuali si trasformino in difetti drammaturgici. Se è vero infatti che l’adozione del classico schema narrativo del “viaggio dell’eroe” (Gioia e Tristezza nella “Memoria a lungo termine di Riley” come Alice nel Paese delle Meraviglie o Dorothy nel Regno di Oz, o ancora Pinocchio nel Paese dei Balocchi, e potremmo continuare quasi all’infinito) consente di racchiudere un percorso ludico-formativo all’interno di un cerchio perfetto, con tutto il noto repertorio di alleati e nemici, prove e sacrifici, semine e raccolte, qui l’azione latita così tanto che sono necessarie lunghe digressioni – pure straordinarie dal punto di vista tecnico-stilistico e colte sotto il profilo artistico e del richiamo cinefilo – quasi del tutto inutili per il prosieguo delle avventure dei protagonisti (per esempio le sequenze nei mondi di Immagilandia e Cineproduzione Sogni). Quanto poi alla dimensione dei personaggi, costruire delle figure statutariamente così poco soggette a mutazioni e sfumature psicologiche (come fa Gioia ad essere triste? E come può Tristezza coltivare la felicità?) potrà rappresentare certo un limite per la costruzione di dialoghi e situazioni brillanti, ma c’è davvero da chiedersi come mai gli unici veri elementi umoristici arrivino solo nei rari momenti in cui usciamo dalla “sala di controllo” per prendere una vacanza dentro la mente dei genitori, dei coetanei o persino di un cane che attraversa la strada. Troppo attento alla funzione “didattica” e più ancora a quella commerciale (il merchandising, i parchi a tema, l’induzione al consumo indiscriminato), il film insomma dà la sensazione di perdere terreno proprio sul tema dell’autenticità, dell’universalità delle pulsioni emotive, dell’empatia (forse il vero marchio di fabbrica Pixar), elaborando in vitro un blockbuster che assomiglia più ad un esercizio di stile che ad una fabbrica di sogni.

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