SARÀ IL MIO TIPO?

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Una scena dal film SARÀ IL MIO TIPO?

di Francesco Torre

SARA’ IL MIO TIPO?

Regia di Lucas Belvaux. Con Émilie Dequenne (Jennifer), Loïc Corbery (Clément), Sandra Nkake (Cathy), Charlotte Telpaert (Nolwenn).
Francia 2014, 111’.

Distribuzione: Satine Film.

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La distanza tra Parigi ed Arras è solo di 90 minuti ma a Clément, giovane professore di filosofia e autore di un saggio di successo dal titolo “De l’amour e du hasard”, il trasferimento temporaneo subito ad opera del Provveditorato sembra davvero una punizione infernale.
Jennifer, invece, ad Arras c’è nata e non sembra affatto vivere la propria condizione con sofferenza, nonostante gli impegni familiari (ha un figlio piccolo di cui si occupa da sola) e professionali (fa la parrucchiera in un salone del centro) le lascino margini di libertà davvero minimi, che perlopiù vengono occupati con esibizioni al karaoke.
Da un abbandono sentimentale a un altro, il regista – il belga Lucas Belvaux, una ricca filmografia tra interpretazioni e regie ma pressoché sconosciuto ai listini di distribuzione italiani – incornicia le storie dei due dapprima tramite un montaggio alternato e poi, dopo il loro inevitabile quanto inesorabile incontro, secondo i più classici dettami della screwball comedy, compreso l’archetipico percorso recriminatorio fatto di non detti, o peggio di bugie, di incomprensioni e fughe più o meno definitive.
Nonostante la prevedibilità di una struttura narrativa blindata, però, Sarà il mio tipo? (titolo originale Pas son genre, come l’omonimo romanzo di Philippe Vilain di cui è un adattamento) scolpisce un immaginario contemporaneo dei sentimenti autentico e, per certi versi, sorprendente. Innanzitutto grazie ad un audace uso delle cosiddette false piste.
Clément l’intellettuale, Jennifer la parrucchiera. Il primo frequentatore di mostre d’arte contemporanea, la seconda delle discoteche. Lui legge Proust e non possiede la tv, lei divora bestseller da supermarket ed ha una passione viscerale per i film con la Aniston. Gli elementi per una riflessione di stampo sociologico sull’impossibilità di incontro tra mondi così differenti sono tutti sul tappeto. E la sceneggiatura ci va a nozze, giocando con stereotipi e banalità che, però, non rappresentano mai per l’evoluzione – e la successiva involuzione – del rapporto sentimentale tra i due una vera barriera. Prova ne è che quando la coppia prova ad immergersi nei contrapposti spazi esistenziali (Clément al karaoke, per esempio, o Jennifer con la lettura di Dostoevskij) trova sempre un civile punto di tolleranza, o addirittura lascia emergere da dentro l’inconscio dei personaggi qualcosa di nuovo ed inaspettato.
Più di matrice letteraria, ma con tracce evidenti di cinefilia, è invece la riflessione retorica che il film ingaggia su filosofia e vita, amore ed erotismo, teoretica ed etica. La prima parte dello script è estremamente verbosa, Clément viene investito da seri dubbi riguardo l’origine e la direzione dei propri studi, e anche con Jennifer, il flirt nasce davanti a un bicchiere di vino con sottofondo di divulgazione di Kant per le masse. Nonostante i parallelismi, a tratti anche abbastanza parassitari, però, la sceneggiatura non incastra mai la riflessione filosofica e l’azione drammatica, o quantomeno non nel senso della grande tradizione di Rivette e Bonitzer, e nemmeno nel solco dello stile dei seguaci del Nouveau Roman, Resnais in testa. Modelli di riferimento evidentemente estranei, anche visivamente, al linguaggio cinematografico qui adottato da Belvaux.
Sebbene evidentemente non centrale e addirittura surrettizia, la presenza di questi due forti schemi interpretativi non sembra però mai casuale e assume anzi un valore quasi strategico, in quanto aiuta a celare per buona parte della visione la vera identità del film, che sembra risiedere altrove, nel corpo dei protagonisti così come nell’anarchica celebrazione del singolo momento di vita vera, unico e irripetibile nelle sue caratteristiche di bellezza e mistero.
Siamo nei territori di François Truffaut? Di sicuro non troppo lontano. Il linguaggio fresco e disinibito che accompagna la descrizione di Jennifer nel primo atto, ritmato da un motivetto pop e gestito quasi unicamente sui dettagli corporei, è da questo punto di vista quasi un manifesto stilistico. Sospensione del giudizio, regia mimetica, narrazione episodica, macchina da presa incollata sui volti, sui sorrisi, sugli occhi. L’intenzione sembra sempre quella di svelare i più segreti moti interiori, i sobbalzi emotivi, i repentini cambi d’umore dei personaggi. Il modo in cui il regista inquadra la sua eroina, poi, è un misto di adulazione e incredulità, simile all’estasi di chi si trova di fronte a un enigma inspiegabile e sempre sorprendente.
I due attori protagonisti, in questo senso, coprono lo spazio visivo sempre con grande intensità e personalità, ma è soprattutto Émilie Dequenne (la Rosetta dei Dardenne, che qui ritroviamo quindici anni dopo) a lasciare un ricordo difficilmente dimenticabile. Lucente, riempie ogni inquadratura di gioia e mistero. Come la passione amorosa di cui si fa interprete il film, priva di progettualità e raziocinio, inquinata da sovrastrutture sociali e culturali ma pulsante di autentica vitalità, capace di tutto e per questo incline, spesso, all’autodistruzione.

La citazione: «Io sono Bilancia, sarò sempre un po’ sognatrice».

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