
Una scena del film MR. HOLMES – IL MISTERO DEL CASO IRRISOLTO
di Francesco Torre
MR. HOLMES – IL MISTERO DEL CASO IRRISOLTO
Regia di Bill Condon. Con Ian McKellen (Holmes), Laura Linney (Mrs. Munro), Hattie Morahan (Ann Kelmot), Milo Parker (Roger).
GB/Usa 2015, 104’.
Distribuzione: Videa CDE.
Tratto dal romanzo di Mitch Cullin “A slight trick of the mind”, ma con debiti evidenti nei confronti di “Soluzione finale” di Michael Chabon, “Mr. Holmes” di Bill Condon (“Dreamgirls”, “Twilight”, “Il quinto potere”) interpreta il mito del celebre investigatore inglese con davvero poca riverenza nei confronti del suo creatore, Sir Arthur Conan Doyle.
Lo Sherlock Holmes di Ian McKellen ha 93 anni nel 1947 e vive sulla costa meridionale dell’Inghilterra, dedicandosi all’apicoltura. Ha attraversato la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e fatto in tempo a vedere sullo schermo alcune trasposizioni cinematografiche dei racconti che John H. Watson ha tratto dalla loro attività investigativa a Baker Street. Nessun berretto da cacciatore, nessuna pipa. Solo enormi rimpianti e una dolorosa, trentennale solitudine, la cui origine Holmes ha seppellito nei meandri della propria memoria ma che ora maieuticamente, con l’aiuto di una governante e del suo giovane figlio Roger, si appresta a recuperare per fare definitivamente i conti con il proprio passato.
Tre i piani narrativi e temporali in cui si sviluppa l’intricato gioco di specchi della sceneggiatura: il presente (Sussex, 1947); il recente passato (un viaggio di Holmes in Giappone alla ricerca del fiore di pepe, pianta dai miracolosi benefici per la memoria, sepolta sotto le ceneri del disastro atomico di Hiroshima); la vecchia indagine su Ann Kelmot (Londra, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale). A congiungerli, principalmente un diario, o meglio un racconto, che Holmes scrive nei suoi ultimi giorni provando faticosamente a ricostruire il caso dell’aspirante suicida di 30 anni prima, ma anche una serie di flashback, fantasticherie e visioni oniriche partorite dalla mente dell’investigatore. Una struttura complessa, con più livelli di lettura, che vuole mettere al centro un enigma esistenziale più che il racconto giallo che vive nello sfondo (come “Citizen Kane”, giusto per scomodare l’archetipo del genere), ma che avanza sullo schermo con grande fatica e troppa ingiustificata enfasi (fino al finale dal sapore melodrammatico), con grande meccanicità e senza mai dare l’impressione che il racconto abbia davvero un carattere d’urgenza. In più, nonostante le belle idee di montaggio, la fotografia – molto pulita e regolare, senza fronzoli estetizzanti a parte, a tratti, il gusto oleografico per i paesaggi e le architetture tipicamente british – risulta spesso eccessivamente mimetica, troppo uguale a se stessa nonostante gli improvvisi cambi di scenario, e ciò rende a volte difficile settare il dove e il quando delle azioni di Holmes.
Detto questo, è sicuramente apprezzabile il grande lavoro di sottrazione su un personaggio così stereotipato e mediaticamente riconoscibile come Sherlock Holmes, al fine di renderlo più contemporaneo, universale e, per certi versi, normale. Nelle prime immagini del film, il protagonista viene inquadrato mentre ritorna, prima in treno e poi in automobile, alla casa di campagna. Il suo primo piano viene associato a ruderi di chiese, lapidi, pezzi di intonaco che cadono dal tetto: segnali di un passato glorioso che reclama un ritorno alla vita, nonostante l’oggettivo stato di decadenza. Un modo per descrivere lo stato d’animo del personaggio del tutto visivo e funzionale. Però, mentre nell’appassionante ed ironico romanzo di Michael Chabon dedicato a Holmes (con il quale il film ha diverse cose in comune, dall’apicultura all’incontro fatale tra l’anziano investigatore e un fanciullo), l’investigatore celebra questo ritorno alla vita tramite un’azione nel presente, qui assistiamo unicamente ad un ripiegamento sul passato, laddove si annida cioè una colpevole rimozione. Abbandonato dunque il genere di riferimento, il racconto giallo, la narrazione si rifugia nei territori della riflessione esistenziale e del metalinguaggio, costruendo continui giochi di specchi tra letteratura e cinema, tra storia e Storia, tra realtà e finzione. Un percorso certamente ambizioso, ma infine tristemente ricondotto alla difesa di un’etica autoconsolatoria. Pensiamo all’episodio giapponese, così enigmatico nella sua funzionalità strutturale ma centrale per definire l’impossibilità di confini sicuri tra vero e falso e puntare il dito sulle conseguenze inevitabili di ogni mistificazione. Alla ricerca del fiore di pepe, Holmes viene ospitato da una guida che rivelerà ben altre intenzioni, e accuserà l’anziano investigatore di essere il principale responsabile della scomparsa del padre, diplomatico in Europa all’era della Prima Guerra Mondiale. Holmes non ricorda l’accaduto e nega con forza di aver conosciuto l’uomo in questione, anzi agli occhi del figlio lo descrive come un probabile bugiardo. In un finale carico di simbologia, che mette insieme una cerimonia apotropaica in stile Stonehenge e rivela la forza reazionaria della metafora sociale delle api (la rigida gerarchia tra regina, fuchi e operai, infine esattamente ricostruita nel triangolo formato da Holmes, Roger e Mrs. Munro) decide di abbracciare totalmente finzione e aneddotica, onorando la memoria dell’uomo scomparso con un racconto edificante che non sapremo mai se sarà unicamente frutto della sua fantasia o meno. Un gesto apparentemente buonista ma che, considerando l’ambizione dello script di trasformare un personaggio iconico dell’immaginario letterario mondiale in un emblema della rimozione occidentale nei confronti delle tragedie storiche del Novecento (altrimenti non troverebbe giustificazione l’inserto legato a Hiroshima), finisce per giustificare ogni mistificazione storiografica in nome di un’immaginaria e ipocrita riconciliazione che, prima di essere tra uomo e uomo, è tutta interna al singolo con la propria coscienza.