
Francesco Maria Tipaldi
di Gianluca D’Andrea
Spazio Inediti (7): Francesco Maria Tipaldi
la speranza
mi svegliai nel luogo nero e selvaggio
lunapark
il ratto adolescente provava l’amore
il tempo era un cavallo in una pozza di petrolio
ed io portavo del latte
mi dissero
di avvicinarmi – oh saresti uno sciocco a non avvicinarti
c’era una donna
accovacciata per pisciare e stava attenta alle punture
dell’ortica
e la faceva vedere ai ragazzi
– è bella, è bella e profuma
mi dissero di avere speranza
con i fiori in mano
e le stelle
e il furgone odoroso delle vacche
passava tra le case verso Dio
e più si allontanava più crescevano gli occhi delle bestie
dirai una moneta, sangue, il lardo nella carta
è così
la zingara mi lesse nella mano i giorni passati che ormai
non conoscevo
i giorni tornati al profondo
io sono un altro, le dissi, certamente, la morte mi bacia con forza

Giostra di campagna, Renzo Baggiani © (2012)
Serie di metafore che si legano creando un grappolo allegorico di senso. Vissuta in prima persona l’esperienza allucinatoria della fine, a condurre questo testo scardinante è il senso di vitalità che scaturisce dalle peripezie immaginifiche, per cui i quadri sono sovrapposti senza tradire l’ordine sintattico, ma la composizione a salti, induce l’unione proprio quando la frammentazione visionaria potrebbe suggerire il contrario. Perché il movimento del testo è discendente, esposto alla necessità di un anticlimax che, riducendo l’intensità al puro manifestarsi dell’evidenza della fine, coagula nelle sue strofe intermittenti accensioni di una vitalità bassa, istintuale, che tenta di portare alla luce l’aspetto baldanzoso dell’esistenza. In pratica prima di cedere alla forza del bacio della morte, si dispiega un mondo di vite concrete da afferrare anche per un attimo, in una giocosità che si avvicina all’innocenza dello sguardo originario: «il tempo era un cavallo in una pozza di petrolio / ed io portavo del latte / mi dissero / di avvicinarmi – oh saresti sciocco a non avvicinarti // c’era una donna / accovacciata per pisciare e stava attenta alle punture / dell’ortica / e la faceva vedere ai ragazzi» (vv. 4-11). La speranza del titolo è proprio la presenza del soggetto che, immerso negli eventi, pur non cogliendo tutti i nessi della complessità dell’esistente, li avverte sensibilmente, vi aderisce per via metaforica, creando quel giusto distacco che ne consente la salvazione. Fino alla chiusura ironica, che rinforza il proverbiale je est un au-tre, adducendo, a conferma dell’ineluttabilità del processo vitale, l’agnizione dell’alterità at-traverso la fine dello stesso soggetto. Il movimento della composizione è il divenire dell’essere nel mondo, del suo sguardo che conserva qualcosa di estraniato, allucinato, della sempre inedita parvenza dell’esistere – ecco perché, le metafore, accavallandosi pa-rossisticamente, permettono di giungere al cuore dell’allegoria, per cui l’eroe, pur con aria disillusa, continua a legarsi confidenzialmente all’esistere, disilluso sì, ma non arreso all’impossibilità del dire proprio nella consapevolezza della fine. La parola, sembra dirci il testo, può nominare la vita partendo proprio dalla certezza abbracciata del suo ritorno alla cessazione: quale «luogo nero e selvaggio», se non il «lunapark» dell’esistenza, aspetta infine il bacio potente dell’alterità assoluta, unica a liberarci definitivamente dal peso dell’io?
(Marzo 2014)

Francesco Maria Tipaldi nel dicembre del 1974 (foto di repertorio)
Francesco Maria Tipaldi è nato a Nocera Inferiore il 29/III/1986. Ha pubblicato La culla (Lietocolle 2006) e Humus (Arcolaio 2008). Nel 2010 è stato tradotto ed inserito nell’antologia In our own words – A Generation Defining Itself (MW Enterprises) edita negli Stati Uniti. Del 2012 è il volumet-to il sentimento dei vitelli (EDB).