Carteggio VIII: Purismi mortuari e forma comune dell’ibridazione. Poesia come esistente

jankelevitch

Vladimir Jankélévic

di Gianluca D’Andrea

Carteggio VIII: Purismi mortuari e forma comune dell’ibridazione. Poesia come esistente

Qualche giorno fa, al telefono con un’amica, ho avuto la possibilità di riflettere sulla potenzialità di diffusione del messaggio poetico attraverso i canali offerti dalla rete. I siti-contenitore di poesia si moltiplicano confermando la tendenza al decentramento e alla pluralità. I link, il rimando costante, la connettività stretta consentita dai social-network, contribuiscono a modificare la percezione del fenomeno poesia che sembra dilatarsi e, dalle stanze chiuse dell’editoria e dell’informazione stampata, raggiunge un livello di consuetudine svincolato dalla monodirezionalità dei canali tradizionali. In termini negativi, la connettività perpetua provocherebbe un’espressività arbitraria, proprio perché disancorata dai filtri del precedente scambio relazionale, fatto quasi esclusivamente in praesentia. Il dato concreto, però, evidenzia uno scarto evolutivo della stessa relazionalità, che si ricontestualizza nella rapidità dell’accesso al dialogo e nella possibilità singola di maturare la propria libertà, partendo dal nuovo accesso al contatto. Al fondo di queste dinamiche agiscono gli stessi valori relazionali di sempre, ma aumenta la consapevolezza dell’ibridazione, di cui la virtualizzazione dell’essente, aspetto integrante della nuova società, è ampia manifestazione.
Lasciando da parte la superficie liquida e fluente del fenomeno, è molto più produttiva un’immersione nelle potenzialità ri-creative che l’essere relazionale realizza all’interno del mondo della mutazione, anticipando la fine della dicotomia che tagliava in due l’esistenza stessa, il movimento oscillatorio, in una visione manichea e purista che distingueva nettamente tra un Bene idealizzato e un Male, il divenire, contaminatore. Proprio il divenire, caduta definitivamente ogni possibilità “semplificante” dell’esistente – nei termini appena esposti della ricostituzione di un’innocenza primigenia, fatta di naturalità creaturale – si manifesta come passaggio infinito dall’egoità all’alterità (Jankélévitch). Gli attimi di contatto con l’alterità sono l’amore, la ricreazione – nell’oltre sé – ovvero la poesia (ποίησις), l’impulso generativo che, nei momenti di estraniazione dal sé (ricreazione del sé e avvento dell’altro) permette l’azione, l’unica spontaneità del movimento, sempre rifluente. Per questo la poesia (l’esistente) è la più comune delle ibridazioni – e non può che essere presente, essendo un movimento, nell’epoca della perdita della distinzione limitante tra reale e virtuale – perché permette di ri-attivare continuamente, non solo per mezzo della scrittura (la poesia è tutti i linguaggi), lo slancio iniziale, cioè la caduta nell’alterità. Questa attivazione è l’azione, in questo caso semplice perché effettiva, che consente la riproduzione del vero movimento, costituito di soglie d’attraversamento, per cui il soggetto, essendo immerso nell’alterità, sceglierà costantemente le proprie intenzioni – che siano di chiusura o apertura alla stessa alterità – effettuando un cammino che non ha altra certezza se non il suo stesso tragitto, il quale si compie ma non può fermarsi.
L’esperienza dell’alterità – dell’oltre che non è uno spazio separato, una virtualità astratta, bensì una virtualità in cammino, senza requie – è la vera possibilità che l’esistenza si riattivi fuori da nichilismi e monadismi di sorta, così come la poesia – l’azione fattrice – che con l’esistenza in sostanza coincide.

(Aprile 2014)

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