Carteggio XVII: La storia dei ricordi (1ª parte)

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Diego Armando Maradona

di Gianluca D’Andrea

La storia dei ricordi (1ª parte)

Cosa aspettarsi da un’altra attesa, da un passaggio che ci aspetta?
Vivo l’attesa come una norma, aspetto cosa mi aspetta e mi modifico nell’aspettare, non nell’aspettativa ma in un altro aspetto. Vorrei, però, fissare alcuni punti – giunture che non sento più di poter aspettare – abbandonarli alla funzione cardine dell’attesa di una nuova costruzione. Ristabilire una continuità col luogo stesso dell’attesa, torre di controllo che non ceda all’angoscia ma si svincoli dall’attesa fissa, senza scarti estremi, senza rapimenti di tempo. Il movimento in uno spazio cui adattarsi, senza la forzatura della volontà nell’adattamento; lasciarsi raggiungere dall’attesa che si adatta. Aspetto.

Dopo l’ansia del dover essere
nell’assenza della presenza dell’assenza,
e la maestra ci interrogava tutti, senza scampo,
notavo che l’ansia di riempire il buco
era la paura di scavare con le mani,
persino nella sabbia, con i granelli
tra le unghie – la pulizia dell’assenza del buco,
la pulizia dell’oggetto circostante,
poi in disordine ripetevo il ciclo
del riordino, come quando il giocattolo
non parla più alla nostra immaginazione
e resta il vuoto, il buco del vuoto.
Tra le altre notizie, Maradona, il doping,
lo sport si sfascia, il tanto amato,
neanche il buco di una nostalgia,
l’aderenza virtuale al buco parallelo,
geometria, geografia, figure si fermano
sul foglio senza progetto, solo per colmare
il buco della presenza dell’assenza.
Inoltre sulla strada serpeggiavano
auto quadrate e le contavo
scommettendo sui colori – celeste –
chissà poi perché celeste, scialbo, ceruleo,
annacquato, oleografico celeste.
Un tocco immateriale in tutto un corpo
fatto immagine senza consapevolezza, ancora –
si rese consistente quando il feticcio –
il corpo – adattabile allo scambio –
prima della virtualità del denaro,
l’aerea, fantasmatica circuitazione della velocità,
nell’incremento magico di un momento e nel riposo
di individui in movimento perenne, sugli algoritmi.
Le carneficine continuavano come residuo
di un passato carnale, residui balistici
da smaltire come fossero ultimi rifiuti industriali,
poi aria e vapore sinaptico,
sempre quel mondo in un’altra visione allucinata.
Ormai stavo per chiudere con le esperienze
stupefacenti del cambio di prospettiva,
i genitori attendevano la presenza dell’assenza
della presenza, il respiro poteva coagularsi
o cascare fino al ribaltamento di un corpo
appena sdraiato, mi restavano
alcuni atti innocui d’eroismo,
come provocarsi conati, infine rigurgitare
ciò che si era ingerito per cambiare prospettiva,
e continuare subito dopo (sempre dopo)
a ingerire.
Erano quasi questi anni, 30-20 anni fa,
per approssimazione la spinta individualistica
spenta negli abusi per mantenere ricche
le vecchie risorse, un po’ di spremuta
di vite? I motori a miscela
camminavano anche qui insieme
ai rifornimenti della Terra in cerchio.
Chiudevano le case chiuse,
col binocolo – strano strumento retrò,
di pregio perché non comune,
non esattamente tascabile –
a volte guardavamo dentro le case
e spiare era un modo per impiegare
ore non proprio disoccupate,
perché non rilassare i muscoli,
accomodare il più possibile la comodità?
Ho frullato anch’io uomini e donne
e buone porzioni di me perché potessi
ricordare, un giorno, senza nostalgia,
che il mondo può restare indiscusso,
senza termine che sfondi
il confine o un campo senza recinzioni.
Negli anni ’90 ho cominciato
a fare bagni di crema solare,
di sole intensivo, d’intenso cremare –
ustionato, fervente, indirizzato
a una possibile rovina.

(Agosto 2014)

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