
Giorgio Orelli (1998)
Questa settimana Fabio Pusterla suggerisce alcuni testi significativi di Giorgio Orelli, uno dei maestri della poesia, e non solo, del Novecento. Per ricordare con amicizia e trasporto l’autore svizzero e in attesa della pubblicazione dell’imminente Oscar Mondadori. Buona lettura.
Gianluca D’Andrea
Poesie – Giorgio Orelli
(scelte da Fabio Pusterla)
da L’ora del tempo (1962)
SERA A BEDRETTO
Salva la Dama asciutta. Viene il Matto.
Gridano i giocatori di tarocchi.
Dalle mani che pesano
cade avido il Mondo,
scivola innocua la Morte.
Le capre, giunte quasi sulla soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.
*
FRAMMENTO DELLA MARTORA
…
A quest’ora la martora chi sa
dove fugge con la sua gola d’arancia.
Tra i lampi forse s’arrampica, sta
col muso aguzzo in giù sul pino e spia,
mentre riscoppia la fucileria.
*
PASSO DELLA NOVENA
A mezzo d’uno di quei giorni di primo settembre
che per cinti, selle e bocchette tiran fuori
dalla tana le finte pigre
marmotte e le addormentano sui sassi,
nel mio paese d’origine è ancora
tempo da fieno, tace
la madreperla della fisarmonica.
E lasciato l’ospizio (la donna dagli occhi
troppo azzurri, le teste dei camosci
da gran tempo caduti:
vita rappresa come dentro un quarzo!),
s’invecchia quanto più rari si fanno
gli alberi, quanto più il fiume
ringiovanisce.
Io e mio padre quando fu che bevemmo
la prima volta a questa fonte?
Già notturna è l’ombra
da cui risale il pastore a cacciare
le vacche ai cespi estremi.
E giunge con la riga del suo fischio
un uccello, s’arresta, gli trema
accanto l’erba mutellina.
Poi, sul passo, guardare, stancarsi di guardare,
chiudersi nel rumore fitto d’elitre,
scoscendere colà
dove al camoscio ultimo nato e incerto
volga gli occhi la madre,
soave per lo scoglio sconcio ed erto.
*
A UN GIOVANE POETA CACCIATORE
Ma se lo scoiattolo muore
con la nocciuola in bocca e lo raggiunge
nel folto del mattino un sole
come appena risorto, accendendolo
un attimo che durerà non meno d’un rimorso
(non un filo di sangue, e quel trambusto
per cui ti volgi invano, e, di là, nella radura,
quelle palate, non d’uccelli); se quella che ti passa accanto
nel silenzio che succede allo sparo
non sai di chi nell’alto del calanco,
pernice troppo pesa, ferita,
che precipita sì che tu la vedi
scendere vicinissima in un vuoto
concesso dalle pietre, zampettare, tacere…
***
da Sinopie (1977)
A GIOVANNA, SULLE CAPRE
No che non sono cattivose le capre di Dalpe.
Più che la voglia ingorda e l’anima vagabonda
saggezza le sospinge nei luoghi
più solivi della nostra conca
quando l’inverno è quasi senza neve,
e in giorni come questo luminosi,
vedi, non hanno corpo, non sono che macchie
nere sul greppo; e quella, immota contro il cielo,
potremo attraversarla tenendoci per mano.
Presto esulti, le chiami, gli porti fili d’erba,
lasci che l’una o l’altra ti venga a trovare,
e mentre t’annusa le tocchi il piccolo campano
che suona leggero ma franco più delle campanelle
dell’albero di Natale.
Guardala bene negli occhi, osserva
la tenace pupilla, e come (non piangere, vanno)
a una giusta distanza ci circondano
e pregano per noi.
*
A LUCIA, POCO OLTRE I TRE ANNI
«Di chi è questo odore?» «Questo odore
è del sambuco.» «Del san cosa?» «Del sambuco,
d’una pianta diversa dal pino sotto cui siamo passati
tante volte in questa falsa estate;
coi fiori del sambuco la nonna, la nonna Maria,
faceva la gazosa.» «Sì, è morta.»
Dura l’odore del sambuco, così diverso da quello del pino,
l’odore fresco del sambuco, parente
della robinia, qui, dove rane e immondizie
esagerano, e il sole
sembra affliggerti, figlia
nemica di ciascun crudele, che a volte mi guardi come sapessi
la vita che noi morti qui viviamo.
*
DAL BUFFO BUIO
Dal buffo buio
sotto una falda della mia giacca
tu dici: «Io vedo l’acqua
d’un fiume che si chiama Ticino
lo riconosco dai sassi
Vedo il sole che è un fuoco
e se lo tocchi con senza guanti ti scotti
Devo dire una cosa alla tua ascella
una cosa pochissimo da ridere
Che neve bizantina
Sento un rumore un odore di strano
c’è qualcosa che non funziona?
forse l’ucchetto, non so
ma forse mi confondo con prima
Pensa: se io fossi una rana
quest’anno morirei»
«Vedo due che si occhiano
Vedo la sveglia che ci guarda in ginocchi
Vedo un fiore che c’era il vento
Vedo un morto ferito
Vedo il pennello dei tempi dei tempi
il tuo giovine pennello da barba
Vedo un battello morbido
Vedo te ma non come attraverso
il cono del gelato»
«E poi?»
«Vedo una cosa che comincia per GN»
«Cosa?»
«Gnente»
(«Era solo per dirti che son qui,
solo per salutarti»)
*
QUADERNETTO DEL BAGNO SIRENA
I
Calmo e limpido il mare
che prende e dà memoria
e a te darà sopra tutto salute.
Il cielo in qualche zona
ha l’azzurro nutrito dal ferro
delle ortensie sul Ceneri.
«Vieni», dici, «fa’ il morto,
è così facile». A me
che appena il vivo so fare.
II
«C’era davvero il duca? e perché non è morto
vecchio? Gli è capitato qualcosa?
Perché ha il naso così? Perché era ricco
e aveva così tante stanze? Perché suo figlio
non ha avuto neanche un figlio? E queste scale
perché non gliele fanno anche alla nonna?»
«C’era, c’era davvero. Te lo racconterà
la mamma. Io quel che posso dirti,
adesso, è che quel duca, quel Federico, era come
il re di picche, viveva di profilo.
Gli altri duchi ce l’avevano intera,
la faccia, ma valevano la metà.
Col brutto tempo, al mare,
in una pensione gonfia di bambini.
Qualcuno dei nostri vicini d’ombrellone, due madri,
l’una figlia dell’altra, avevano deciso
di andare a Predappio, o meglio, lo aveva deciso
il marito (di quale?), industriale del nord.
Lo dissero, invitandola, a mia moglie.
«Predappio?», fa la poverina, «a Predappio a far che?»
«Ma a Predappio c’è il duce», dice la madre giovane.
«Sai, la signora è svizzera», dice la madre anziana.
«Pure», insinua la giovane, «ci sono
simpatizzanti anche lassù.»
E così, mentre quelli andavano a Predappio,
non certo a meditare sul nodo e la catastrofe,
sì per fortificare
il mito,
io, mia moglie e le due figliuole viaggiammo in una valle
stupendamente pezzata, sparsa di
lingotti d’oro bianco, finché, tra due colline,
là dove i bambini nei loro disegni mettono il sole,
scorgemmo, rosa vecchio, Urbino.
Dentro, profanavano l’ostia, flagellavano il Cristo.
III
Come viene la sera che sa mai
perché non tornano da tanto le rondini
a disegnare assenze di pensieri
che lasciassero tracce colorate
che sa che Pollok (con i pali blu).
Come viene la sera la Graziella
e la Lucia si lasciano gridando
ciao con echi di terra
e di mare che sembrano d’uccelli
fin che non s’odono più.
IV
Se n’è andato il tedesco di origine croata
con senza una gamba (dum dum
di partigiani iugoslavi).
La nonna che guardando
l’aquilone inciampava in se stessa.
La milanese, l’eterna altrui cara consorte
cui garbìno ritarda le cose.
Adesso Gino (prigioniero
quattro anni degli inglesi in Egitto)
può raschiare la spiaggia del Bagno Sirena
e il gabbiano misurare lampeggiando
lungo tratto di cielo prima di scomparire.
V
Dixit fascista: «Domani è bel tempo,
la bora continua a soffiare,
le stelle ci sono al settantacinque per cento».
La suocera disse che il vento era un altro
anche sul molo,
non poteva essere quello buono.
E aggiunse: «La bambina ha mal di stomaco,
cosa le diamo?»
«Niente», disse il fascista. Poi, dopo insistenze
dell’avversaria: «Se ha mal di stomaco
deve bere il bicarbonato
e basta».
L’amico del fascista ha fatto un gran girare.
Disse: «L’Europa ormai l’ho vista bene,
in qualunque luogo io vada so già cosa mi aspetta.
Chi sa dove mi allargo adesso».
E il fascista: «Parigi è una grande città».
«Come monumentalità», disse l’amico,
«Londra al confronto fa schifo. Del resto, escluso Piccadilly,
che è poi il luogo delle puttane,
Londra sembra il deserto. Eh no, Parigi è diversa,
è più accogliente. Però la città che mi piace
più di tutte è Venezia.»
«A me Roma»,
disse il fascista. «Napoli»,
disse l’amico, «la conosco, si tratta di viverci
pericolosamente».
«Buonanotte.»
«Buonanotte.» L’amico del fascista:
«Mi consolo pensando che domani
sarà bel tempo».
VI
Così piccola, e fragile… Ma Franco
(il Caudillo) sta meglio, torna a casa.
L’ha el cul che s’ul mett da la finestra
ai fa e nid i rundanàin.
VII
Lucia ha un po’ di febbre, resta a letto
e giuoca con due bambole piatte.
Una la chiama Paola, l’altra Sandra.
Le fa conversare col sole.
Dice la Paola: che me ne importa
se sono già morta.
La Sandra: è un sogno.
VIII
(Infallibilità. Buchi. Talidomide)
Venuta la canicola. Ne
profitta il Sant’Uffizio
per mettere i puntini sugl’i
dell’infallibilità. Per fortuna,
salvo qualche indulgente pidocchio,
non gli insetti che conoscemmo
le prime estati in due
varianti parimenti dogmatiche.
La motonave Leonardo da Vinci
annuncia che a più di trenta chilometri
dalla spiaggia operai
italiani, tedesche, francesi
e americani giorno e notte stanno
lavorando, perforando il fondo
marino alla ricerca del metano.
Si perdono bambini. Si ritrovano.
Poco fa Nunzia. «I loro genitori
possono ritirarla al Bagno Meridiano.»
Ma è tale, domineddio, la piccola germanica,
che né mani né piedi potrà mai
levare al cielo.
IN MEMORIA
È bastato un uccello che fuggisse
di sotto ai rami schietti di un sambuco
e un attimo radesse l’acqua verde
per ripensare a te, convinto
com’eri che “una fine con spavento
è meglio d’uno spavento senza fine”
(ancora annominatio, disco rotto).
Ma ecco avvampa nel suo training rosso
l’ex allieva che non ricorda nulla
e si ritempra col PERCORSO VITA.
Di stazione in stazione
eccola che s’arresta: flette, tende
il tronco, alza le braccia in alto,
le bilancia in avanti, poi cerchi,
salti accosciati, costali
sugli ostacoli, senza trascurare
le ginocchia, le anche,
fino al ponte
dove ti ritrovarono.
*
SINOPIE
(…)
mentre in disparte l’umiltà dei vinti
(…)
C.Rebora, Framm. XXXIV
Ce n’è uno, si chiama, credo, Marzio,
ogni due o tre anni mi ferma che passo
adagio in bicicletta, dal marciapiede mi chiede
se Dante era sposato e come si chiamava sua moglie.
“Gemma”, dico, “Gemma Donati”. “Ah sì, sì, Gemma”,
fa lui, con suo sorriso, “grazie, mi scusi.”
Un altro,
più vecchio, che incontro più spesso, son sempre io a salutarlo
per primo, e penso: forse si ricorda
d’avermi aiutato una notte di pioggia e di vento ch’ero uscito
per medicine, a rimettermi in sesto con suoi ferri (a quell’ora!)
una ruota straziata dall’ombrello.
Un terzo, quasi centenario, sordo, per solito
se appena mi vede grida: “Uheilà, giovinotto”, e dal gesto
si capisce
che mi darebbe, se potesse, una pacca paterna sulla spalla,
ma talora si limita a sorridermi, o, ad un tratto, eccitato
esclama: “Ha visto! La camelia è sempre la prima a fiorire”,
o altro, secondo la stagione.
D’altri
pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie
(senza le belle beffe dei peschi dei meli)
traversate da crepe secolari.
*
RICORDI DI M.
“La Franca Valvassori adesso
avrà la tua età.
Avevo cinque anni quando venne dai miei.
Mi ricordo il vestito giallo arancio
coi quadretti marroni.
Da piccola (mi raccontava) credeva che i ricchi
e i preti non facessero la cacca
non avessero neanche il culo
finché non ha visto un figlio di ricchi
fare la cacca nella vigna.
Lei certo non mi ha detto né cacca né culo, parole
che non giravano per casa.
Domestica, prima che da noi, in una città con un fiume grandissimo,
rifiutava d’uscire col figlio del padrone
perché figlio di ricchi
studente in medicina che un giorno
toccandola le disse: “Vedi Franca,
queste sono le mammelle, e questi
i capezzoli…”
Confidenze che non mi turbavano, invece mi terrorizzava
il racconto (ancora al suo paese)
del nonno che tornava di notte nella stanza
e lasciava impronte della mano
nere bruciate sul guanciale.
Dove sarà la Franca Valvassori?
Veniva da un paese dal nome
bellissimo: Foresto Sparso.”
*
FORATURA A GIUBIASCO
I
Nessuno che raggiusti biciclette?
Da un muro all’altro In gremio Matris sedet
sapientia Patris. L’immigrato
manovra seriamente le occlusive
dense della sua bella: ah che Carlo! ah che Porta!
Qui CELLE DI CONGELAZIONE, DO
IT YOURSELF CON TAPPETI,
là misericordine (giusto adesso
che, cauto, m’avvicino, scatta
la serratura dell’ingresso),
ed ecco DA QUI MOSSE I PRIMI PASSI
BERTA EDOARDO (amico
del Chiesa,
Chiesa Francesco, però:
un sì, un no ch’esitano sull’onda)
PER LE VIE LUMINOSE DELL’ARTE.
Ah, LAVASOL con signora Scerpella.
Uno schianto? Ma l’occhio della vecchia
dalla panchina mi guarda, le ortensie
hanno raggiunto tutto il loro blu.
II
Per dire in contropelo lo strazio
patito da una piazza
fra le più miti del mondo: ampio prato in pendìo
che tra castagni d’India e platani (danno ombra
ora a vuote automobili) allontanava
dolcemente le case verso i monti,
paese da scomporre e ricomporre
come un Bruegel, ad ogni stagione;
ed ora bello come un cesso nuovo,
una di quelle belle soluzioni
definitive
che i cervelli asfaltati dei nostri Consigli Comunali
trovano senza ombre di dubbi
nel sozzobosco dell’incultura.
E allora tu, cagnino, alza l’anca, irrora a lungo il frivolo
tappeto verde.
III
“Desidèri?” sospira
un’altra vecchia, “i miei desideri son quelli
della partenza. Ma senta il sogno che ho fatto stanotte.
Ero morta, e credevo d’andare, ma sì, in paradiso,
e vedo davanti a una casa, come là, verdina,
San Pietro che faceva
zoccole, ed io gli ho detto che avevo freddo, e gli ho chiesto
se la strada era quella, e San Pietro mi ha detto: “torna indietro,
che è più corta”, e mi sono svegliata”.
IV
Nell’ultimo sole non dico
Un fiore! ma Xuan Loc e vedo
– lucertola impazzita sull’asfalto
caldo ancora d’estate –
una ragazza che non sa dove andare
col fratellino in braccio
e gira gira su se stessa
V
Da qui,
da questo suolo tra i più intrisi di sangue,
si vede bene la nostra
bella zona di resistenza alla noia,
“chiave dei passi alpini”,
“roccaforte”… di che?
toppa patrizia dove
ci si risparmia,
si economizzano le proprie forze
in attesa di meglio o di peggio.
Troppo tardi ormai per guardare
con calma l’uva più bella
di cui la terza vecchia mi ha parlato
senza invidia mostrandomi un povero grappolo
della sua, straziata dal maltempo.
Quel poco che posso adocchiare
non mi sembra né greve né leggero.
Ma giusto alla mia altezza s’è accesa una stanza,
una donna si toglie la collana,
l’affida lentamente ad un astuccio.
Sorpresa, senza denti, risponde
(grilli per attimi gridano)
al mio saluto attento al cane
(all’ovvio, all’oppio, al cancro, al rincaro).
1975
***
da Spiracoli (1989)
da Quadernetto del mare
VII
Due di Spoleto in viaggio di nozze da un mese
in questa tappa a un tratto si sono seduti
sulla sabbia a nemmeno due passi da me.
Lei da molto che piange per cose che sembrano da nulla
e fanno il nulla davanti e di dietro, lui certo maldestro
anche nel rabbonirla, per poi lasciarla sola
a fare una pietosa barricata di sé,
col seme d’un disgusto già quasi insopportabile,
ed entrare lentissimamente nell’acqua, dove non nuota
e, piantato il tozzo corpo irsuto poco discosto dal palo
di sorveglianza, tanto si spruzza strofina la faccia
che pure lei sorride, ma no, non sorride,
in fretta salutandomi afferra la borsa s’accampa
lontano da me quanto basta per aspettare più sola
il ritorno dell’orso. Che a un cenno più franco
lentamente s’avvìa, ma sulla battigia s’arresta
e, storto, le mani sui fianchi: “Che ora è” quasi grida.
“Le sette” risponde la donna con calma incredibile,
lui senza dir niente si volta, entra di nuovo in acqua,
di nuovo si spruzza friziona con forza la faccia.
Quando infine decide di tornare
e di asciugarsi, un asciugatoio non basta,
lei gliene allunga tranquilla un altro col quale
si può insistere minuti e minuti nelle orecchie.
***
da Il collo dell’anitra (2001)
SULLA SALITA DI RAVECCHIA
“La vera comicità consiste in questo, che
l’infinito può trovarsi in un uomo senza
che nessuno, proprio nessuno, lo possa scoprire in lui”
Sören Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica
Chi è questo che viene, che solo di vista conosco,
con senza spolverino di tinta neutra
e strani segni in faccia
e adesso che spingo a mano la bici in breve odore
di glicine mi segue da vicino e fa come volesse parlarmi
e prima di giungere in cima all’onesta salita,
sotto il cavalcavia dove nonni e bambini
si fermano a fare cucù: “Scusi”, mi dice toccandosi
svelto il cappello di falda severa,
“la borsa cade”.
“Grazie, è la solita storia, lasciamola
andare dove vuole”, sorrido, “tanto cadendo si avvita
al portapacchi, vede?, e lì certo starebbe
fino al Giudizio Universale; grazie,
comunque”.
(Sembra chiaro chiarissimo perché
tra gole stupite di merli
un ragazzo l’abbia fatta di corsa
questa mite salita, ma dove la strada pianeggia
cammini senza fretta;
sembra chiaro chiarissimo perché
d’un tratto una bambina sia andata fuori di casa
con un cuscino del letto sul capo sebbene non piova)
E lui, quasi fraterno, quasi mosso
da comprensione ironica di sé:
“Lei non conosce me, io svizzero tedesco di Zurigo,
io non tanti anni in Ticino, noi già
visti più d’una volta a Bellinzona
ma non parlato mai insieme, io testimone
di Geova, sa lei
che la fine del mondo è vicina e tutti i capri
saranno separati dai pecori, lei sa?”
“Lo so, ne ho sentito parlare sul treno del sabato
da una sua consorella”, rispondo e intanto
neri gallini cresciuti con fretta
per il gran compimento, becchi alzati
in nome della Legge, di profilo
ci guardano da un orto, “lo so perché anch’io sono oriundo
dell’aldilà”.
*
da Estive
A sinistra un leghista attempato
alla moglie: “Li metto nella borsa
gli occhiali?”. Lei: “Diocristo nella sacca!”
A destra una nonna baffuta che non si spoglia mai
e picchia il nipote dicendo “è solo un acconto”; e lui:
“Vacca!”, e giulivo tira fuori la lingua,
si accovaccia nell’ombra della sdraio a scavare nel naso.

Giorgio Orelli a Prato Leventina, in una foto di Vincenzo Vicardi ©
Giorgio Orelli. Poeta e critico svizzero di lingua italiana (Airolo 1921 – Bellinzona 2013). Laureatosi all’università di Friburgo, dove ebbe tra i suoi maestri G. Contini, e stabilitosi (1945) a Bellinzona, si è dedicato all’insegnamento e all’attività letteraria, collaborando a numerose riviste (Il Verri, Paragone, Strumenti critici). Vicino ai modi della “linea lombarda” individuata da L. Anceschi, ma soprattutto sensibile, agli esordi, alla lezione di G. Pascoli e di E. Montale, e capace di recuperare con naturalezza gli echi più suggestivi della tradizione poetica italiana (da Dante ad A. Manzoni), ha privilegiato nella sua poesia il mondo circoscritto (il “cerchio familiare”) della sua patria svizzera, orientandosi, nelle ultime raccolte, verso cadenze più esplicitamente narrative. Ha pubblicato: Né bianco né viola (1944); Prima dell’anno nuovo (1952); Poesie (1953); Nel cerchio familiare (1960); L’ora del tempo (1962), in cui confluiscono con nuovi testi le precedenti raccolte; Sinopie (1977); Spiracoli (1989); Il collo dell’anitra (2001). Autore anche di un libro di racconti (Un giorno della vita, 1960), ha tradotto poesie di J. W. Goethe e pubblicato saggi letterari (Accertamenti verbali, 1978; Quel ramo del lago di Como e altri accertamenti manzoniani, 1982, nuova ed. 1990; Accertamenti montaliani, 1984; Il suono dei sospiri: sul Petrarca volgare, 1990; Foscolo e la danzatrice: un episodio delle Grazie, 1992).
(Fonte: “Enciclopedia Treccani”)