
Luciano Neri
Su Figure mancanti (di Gianluca D’Andrea)
Che sia la scrittura la testimonianza che diventa racconto di un’evidenza. La morte e la vita sconfinano l’una nell’altra, Figure mancanti è pietas descritta nell’avvenimento del viaggio, ma ricostruita come impressione o “impressione” che si stende per fare fondamento a una nuova costruzione. Il viaggio del ricordo imprime alle tappe una dimensione assoluta, svincolata dal contingente, aria mitica da una zona continentale in dissoluzione e assurdamente vitale. I quadri balcanici, le recenti devastazioni sociali in Grecia, assumono lo statuto del cambiamento, simboli di diversità dissolte. L’immagine emergente è il fantasma, complesso delle vicende e dei luoghi; il “reportage” impatta sequenza su sequenza lo scioglimento della scena complessiva, le figure sfumano nell’unica realtà della memoria: l’accenno.
Eppure lo stesso accennare, che la poesia di Luciano Neri persegue, è comprensione del mutamento sociale che sembra sgretolare il Vecchio Continente, forse la constatazione di una caduta inevitabile e funzionale all’apertura di una nuova collettività, non ancora visibile eppure necessitante del ricordo e del richiamo di una parola non estetica ma vibrante della sua stessa fine. “L’angelo malinconico” appare in uno dei primi testi della raccolta e, non so quanto questo fosse presente nelle intenzioni di Neri, riesce a ricondurci, attraverso il richiamo all’incisione di Dürer (il riferimento è a Melancolia I, la celebre opera del 1514), alla sospensione estatica da cui ogni opera d’arte – anche quella di linguaggio – prende avvio, sentendo l’esigenza dell’origine. Il ritmo è scandito dagli eventi, ma gli eventi sono allegoria di un’arte che tende alla ricreazione degli stessi: l’artefatto è questo circolo immaginifico che non può interrompere la mobilitazione del reale, anzi spinge per vivificarne il ritorno.
Le figure «scomparivano in silenzio» (Emir Suljagić in esergo alla raccolta) come i segni di scrittura: «come erano esistiti».
TESTI
(…)
(Le figure ormai vuote dell’esperienza
le attraversava chiunque senza curarsi
della loro nudità indifesa – forme impresse
ad ogni confine
e ora nel bagaglio del viaggiatore)
°
(…)
(l’incisore e il cieco di Urfa)
Nell’angelo malinconico la censura
sul bene più grande – estraneo
al viaggio dopo una settimana di mutismo
quando la bocca è piena d’acqua –
le bende sfilacciate agli arrivi traghettano
figure il massimo di luce sopportabile
a riparo degli occhi, al suo interno.
°
(…)
A B.
Preda nel movente dei lupi
nelle tagliole sotto le foglie del bosco
interamente ricoperto di garze…
Bastava che il soldato muovesse
le labbra, facesse un cenno.
Così ti è mancato un soffio
al dirupo degli invisibili (la sorte
appesa a un telefono da campo…):
l’unica strada quella minata
delle campagne, intorno solo l’ignoto,
invalicabile ad ogni incontro.
°
(…)
(Risvegli in casa Zekate)
I due custodi aprono la porta
e fanno segno di entrare
in una corte.
Poi un altro segno
senza oltrepassare la linea
che divide il giardino
dall’ingresso della dimora.
Lo scricchiolio del legno
ad ogni gradino
fino alla stanza
degli amanti – illuminata.
Per il resto luce
tra i disegni delle vetrate
via via più fredda
e lontana… –
fino al brusio
delle stanze superiori
gli incontri puerili.
Parlano solo ai loro simili
davanti a ogni presenza
un dormitorio fantasma.
°
(…)
(partita a scacchi)
Per il genere di male
inaspettato e impensabile
nel bianco di una voce.
E il passaggio delle stagioni
in punta di piedi su quel dolore
autoimmune… –
un quadrato a grandezza d’uomo
al centro del parco.
Panchine affollate e tribune,
file su file, indietro
di pochi anni: soldati e civili.
Lungo il binario macerie
fino al tunnel, colate
di cemento… – le mosse
dei fanti nel pensiero comune
di ogni giocatore, faccia a faccia
nel cifrario degli scomparsi – il rancore sepolto.
°
(…)
(la figlia della signora K.)
Non ha più motivo di cercarlo
tra gli affissi di Marșala Tita
o al padiglione delle culture.
Ora che lei ha saputo
degli insepolti l’iride si svuota
all’arrivo di ogni straniero –
Poi un bisogno di aiuto
cambia reticolo alle memorie
(la implora una voce a custodia
di quella vita…) e nel soggiorno
uno seduto, in carne ed ossa,
sconfinato.
°
(…)
(museo di Sarajevo)
Ad A.
Senza un inizio né una fine
nella camera oscura
del fotoreporter: le mani immerse
nell’acqua piovana. È l’immagine
della dissoluzione – la prima. Esce
dal costato di un uomo
(a figura intera). È accaduto. A Višegrad.
Nessuno ci credeva.
Un altro immaginario si riapriva
dalle sue interiora… –
il fantasma ottico a controllo
del testimone (il soggetto
messo a fuoco, sottosopra) –
come da un’acqua rubata
lo fissava.
°
(…)
(dopo Knin)
Cecchini fantasma ancora concentrati
su ogni piccola boccata, l’attraversamento
a piedi di una città svuotata, anonima –
l’incontro del simile fino alla voce
di uno che sembra resuscitato – poi allo straniero
senza fiato terre svanite, pagine rigide
e fasciate – disabitate.
°
II.
L’uomo una scrittura che ha vissuto pienamente
può riferirla a un futuro in uno spazio bianco
ma la fatica è dura il rischio è alto e nel vissuto
vive – morendo vive… – fa un giro pieno
ma senza tempo si fa presente e con il dono
di chi ha capito come dice A. nei suoi paesaggi
tenuti (a stento) (in vita) sebbene morti sepolti
senza parole senza pagine
Luciano Neri (1970) vive a Genova, dove lavora come insegnante. Ha pubblicato Dal cuore di Daguerre (Gazebo, 2001), con prefazione di Mariella Bettarini, La spedizione del controtempo (in Nono quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2007), a cura di Franco Buffoni e con introduzione al testo di Fabio Pusterla e Lettere nomadi (Puntoacapo, 2010), con postfazione di Tiziano Pacchiarotti.
Suoi testi poetici sono stati pubblicati, in questi anni, sulle principali riviste italiane di poesia. Ha ideato e curato, inoltre, cinque edizioni di “Succursale mare” (spazio periferico permanente), rassegna di approfondimenti culturali e di incontro tra le arti e le forme di scrittura.