
The Kilobots (Fonte: Harvard School of Engineering and Applied Sciences)
Sciami (nota di Gianluca D’Andrea)
C’è qualcosa di stonato in Sciami. Il titolo dovrebbe indicare una fuoriuscita, ma da cosa? dalla moltitudine confusionale data per implicita dall’immersione nella vita collettiva? l’impatto del versamento verrebbe inibito dall’attrito soggetto/contesto e in favore di che?
«The dreadful sundry of this world», la spaventosa accozzaglia di questo mondo, di stevensiana memoria, sembra moralmente inaccettabile o semplicemente illeggibile: «Abito l’inabile paesaggio, fatto e divorato, / nei vincoli la furia estiva, gli insetti stanno nel cavo / di sonno a milioni come noi» (p. 7). In un linguaggio oscillante tra astratto e concreto, il soggetto vuole guadagnare spazio e ristabilire una connessione con un’assertività che sfiora il trascendentale: «Qui la vita che si fa più grande / di ogni suo creatore, che l’ha voluta qui, / si fa senz’ombre, pure, e senza direzione» (p. 9), cioè in un tempo che si dissolve senza direzione, il linguaggio non fa presa, non raggiunge quella sospensione ricreante che deriva dall’accertamento del versante negativo del senso. Sembra di stare dentro i soliti margini dialettici, tranne quando, e qui i migliori risultati del libretto, i quadri quotidiani circoscrivono i punti di fuga: «…Crolli minimi che sento / intorno come fioritura, / avverto del palazzo, del pericolo e lontano / un altro posto da occupare. Così fermo la fuga / aprendo una porta all’improvviso, salutando» (p. 11).
Quando il soggetto resta ai margini e fa parlare il mondo (come nel testo citato o nel primo della serie Sarajevo, secolo e, ancora in alcuni di Milano, secolo – vedi per sprazzi Quasi a quest’ora tutti i giorni, p. 28) la parola di De Santis comunica al lettore un senso di appartenenza e crea vicinanza. Il dispositivo si apre e ingloba l’osservatore, allora ogni fuoriuscita dal collettivo riesce ad arginarsi, a non incorrere in pretese o in dubbi esclusivamente personali. Solo se l’altro è accolto, infatti, si può «col sangue […] trattenere i nomi».
Testi da Sciami
(il giorno, fuori)
Arrivo con il tram dove Milano non esiste ancora
per ogni passeggero la strada si dirama, è un delta
di piazze e di cantieri abbandonati e ha svolte, all’improvviso.
Noi le passiamo e tutto corre in noi, ritardo senza peso
le mattine delle città sono già fiumi scontrosi e senza vuoti.
Eppure le coincidenze fanno ogni persona
o il suo corpo che va da lievità a posa informe,
un’esistenza – e c’è chi sciama via per un batterio,
per l’invisibile che si nasconde all’aria.
Il rifugiato che abita il riposo
illecito in corpo ha cielo ed ha prigione;
la libertà di fatto cerca facili indirizzi.
Ben venga allora morire per la prima volta
nel tuo respiro e poi restare avvolto da correnti,
nell’impazienza ascolto la moltitudine di avvisi
e nomi in codici. Crolli minimi che sento
intorno come fioritura,
avverto del palazzo, del pericolo e lontano
un altro posto da occupare. Così fermo la fuga
aprendo un porta all’improvviso, salutando.
*
(la notte, dentro)
È nel muro di calce viva la telecamera che sgrana
volti e luci in cui rifletto e vivo, in cui sconfino:
è un panorama bianco di feste all’improvviso, di bar, di frenesia
con la città d’estate che si circonda di incendi periferici.
Le conseguenze mai capite di una vita che si allontana,
come una fuga senza inseguitori, sta nella pace dei ritratti
conservati negli archivi di controllo: i visi sconosciuti,
malcerti nello sguardo, pallidi e senza febbre,
lì durano per essere scordati, lì solo siamo noi.
Ed è su questo muro illuminato che mi fermo,
stretto dal suo calore postumo, la sera.
Divento anch’io di fumo e d’ombra moltiplicata,
un taglio di fotogrammi. Tutte queste vene scollegate,
come un museo di elenchi telefonici, la folla unita
in una mappa casuale che non trattiene un solo nome:
i sogni pure sono lasciati al vago ormai
e se ascolto il mio, so che è l’assurdo mormorìo
che viene dal fondo della via, dalla porta appena schiusa
dell’uscita d’emergenza.
*
Sarajevo, secolo
1.
per Adriano Sofri, Erri De Luca, occhi del secolo
12 ottobre 1992-2012
Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l’oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
e l’urto di pressione provocherà maltempo,
mentre la terra si ritrae nel grigio
costretta nel mirino. Di là c’è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C’è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
Il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dei Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
Domani che sarà? La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, domani
che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d’acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà.
*
Quasi a quest’ora tutti i giorni
il sogno di Milano si fa rosa di smalto
atroce ed isolato. Qui l’acqua era la forma
del futuro annunciato e irripetibile;
e ancora, tuttavia, c’è un salto più assoluto
nei vuoti che si formano tra file di piccioni
inermi e neri: tra loro gli spettri, gli assenti, i sepolti
ad armare quadrilateri, fortezze in polvere
dissoluzioni ostili. E la piazza così muore perfetta
piena ed invisibile, col sangue a trattenere i nomi.
Tra lo squilibrio del coma e il grembo nasce l’adorazione
per chi non sarà mai. Resta quest’ora presente,
di caduti, scomparsi, mai arrivati, mai nati
una sentenza che somma le pozze della pioggia
a gemme d’ansia. Qui prende forma la patria
che ha solo presente e non sarà
che questo vago orientamento di passanti.
Da qui, nessuno dopo noi, da qui
la nostra corsa salta l’ombra,
si chiude ogni immediata lievità.
La storia diventa in un istante dubbio
e qui si vedono di noi
quei volti di vertigine, aperti all’aria opaca
che non avranno somiglianze.