
Composizione fotografica di Ruggero Pellegrin e Marta Gambazza: Vedenti © (Fonte: Notizie comuni italiani)
Tra lo gnomico e il didascalico, Osare dire, di Cesare Viviani, impone un senso di inaderenza che toglie fiato. Già a partire da Silenzio dell’universo, il tentativo “esistenziale” dell’autore toscano imprime, e proprio nella direzione mistico-contemplativa agognata, un eccessivo distacco dalle “lordure” materiche. Così la lingua, proprio per via del distacco, si semplifica fino all’appiattimento, non sorprende “criticamente” il mondo lasciandolo vibrare nella totale indistinzione. La poetica, stucchevole ormai, del distacco identitario non si rinnova e non aggredisce linguisticamente la sponda negativa del reale, ma si lascia trascorrere nello stesso flusso indistinto, rilevando – senza strumenti di setaccio convincenti – soltanto la stessa indistinzione. Ma oggi, in tempi postumi e non semplicemente post-identitari, è veramente necessario lasciarsi andare alle cosiddette “cose ultime” o mantenere quel “riserbo” spacciato per valore, il cui unico azzardo, però, è l’allontanamento dai fatti?
In questo smorto paesaggio, che abbonda in autoreferenza, salviamo dei testi che, almeno sul piano concettuale, mantengono in piedi la spoglia del vero.
Gianluca D’Andrea
Cesare Viviani – Osare dire (6 testi)
Quando il cielo si tinge di nero,
a buio,
gli affaticati che ottengono
un giusto riposo a casa
non siamo noi,
affannati a smontare
e a rimontare il vero.
*
Cresceva il non essere.
E chi l’avrebbe fermata l’onda celeste
che scendeva dal cielo a portare il vuoto
e lo diffondeva nell’aria,
e allora c’era chi reagiva
con il sollevamento pesi o con gli addominali,
chi scaraventandosi dal primo cliente
a insistere
per concludere un contratto,
chi si indebitava per comprare una macchina suv,
chi correva in chiesa a supplicare Dio
d rimediare a tutto.
*
Chi non si impegna
resta nella fossa, tale e quale
l’hanno calato.
Chi invece vuole acquisire
uno stato migliore, si dà da fare,
cerca il pertugio per arrivare
al buio più profondo,
all’assoluta quiete,
all’eterno immutabile.
*
Immagine resisti, resisti,
non mi privare della speranza
che un giorno tu possa essere vera,
scoperta dal puro sentire.
Un peso secolare grava
sull’organo del cuore.
E ora non c’è più presenza,
ma tante assenze
che si richiamano
all’insaputa di tutti.
*
E se fossimo noi luce del giorno,
e non il sole?
Acquietarci nel nostro essere vero,
finalmente trovato, essere noi
anche portatori di tenebre,
col tremolio del riposo e del sogno.
E se il tempo fosse solo pensiero?
Ma dall’universo provengono
le alterazioni del corpo
e la febbre.
*
È passata la vita,
e non ce ne siamo accorti.
Se queste sono poesie io sono un dromedario. Non c’è rima (ma non è certo necessaria), ma non c’è suono né, armonia. Mi sembrano solo spunti per improbabili poesie. Le leggo e resto vuoto, mentre la poesia dovrebbe riempire, se non di significati, anche solo intuibili, almeno di vibrazioni, come tra diapason. giuliano
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Forse questa ti piacerà.
Ballata per Craxi.
Nemico d’altri tempi, tornerai
E si farà, attorno a te, quadrato
E serena giustizia infine avrai
Non quella che giustizia ha rinnegato.
Hai vissuto l’orrore comunista
Nei processi guidati da lontano,
Eri da tempo sulla loro lista
Ma ciò che accade non accade invano.
Adesso che la Morte ti ha concesso
La libertà negata e tanto amata
Il nome tuo non soffrirà l’oblio,
Al sangue tuo verranno in tanti appresso,
Il socialismo è una bandiera amata.
Nemico d’altri tempi. Amico mio.
Roma, 19 gennaio 2000
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Il commento su Viviani non l’ho scritto io…ma… tutto sommato…
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Pessime non poesie, vacui farfugliamenti, lessico proto-filosofico incipriato con parole il cui abuso in “poesia” è oramai intollerabile: sogno, giorno, cielo, buio, sole, assoluto, eterno ecc. ecc. Curioso che simili orrori provengano proprio da colui che in un saggio a dire poco discutibile decretava la fine della poesia (che sia morta con lui, però, non c’è dubbio). Giulio Einaudi si rivolta nella tomba. La Bianca oramai non è che un ricettacolo di proto-poeti più o meno 50enni incapaci di qualsiasi poetica che differisca dal più bieco e becero e misero sentimentalismo confortevolmente falso, roba pubblica al solo scopo di racimolare monetine dalle vecchiette che si iscrivono ai corsi di poesi considerando che se pubblicassero autori che veramente rischiano, sperimentano, innovano, non venderebbero una copia e non prenderebbero una lira. Piuttosto che pubblicare queste stronzate perché non ripubblicate il volume di poesie di Chlebnikov tradotto da Ripellino? quello si che sarebbe indispensabile per qualsiasi “poeta” che voglia fare poesia oggi, e ovviamente è fuori commercio, introvabile… e bisogna accontentarsi del libriccino di Paolo Nori che deve fare la marchetta ammiccando al pubblico e facendogli credere che in realtà si tratta di un mito, che Velimir è un poeta semplice, accessibile. Che la complessità va bypassata, ignorata, perché così vuole la massa. Sarebbe bello ogni tanto ricordare alla massa che anche la morte è semplice, accessibile, anche la strage, l’omicidio, il suicidio, perché la massa non provvede invece di continuare a favorire lo sterminio di alberi??
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