Lo spettacolo della fine – XXXVI.
Come un filo d’argento,
come un serpente con le sue squame,
la nube era sorta all’orizzonte.
Le strisce gialle sulle pareti metalliche
rimbalzavano un bagliore bianco
soffuso. Ero immerso nell’osservazione dei fatti, eppure i miei pensieri sognanti e dispettosi mi fecero immaginare presenze. Una donna, dai capelli arancioni intrecciati che rilasciavano sfumature brune e riflessi mutevoli, si sporse da una delle pareti. La sua camicia larga e svolazzante, di un bianco sgualcito, spiccava su una gonna lunga, ugualmente sgualcita e di un rosso brunito, quasi vinaccia.
I fiori degli anni scandiscono il tempo (almeno nei miei ricordi vetero-libreschi) e la donna era l’immagine di chissà quale desiderio antico. Si muoveva ripetendo un unico gesto: sporgendosi dalla parete, piegava il ventre e si fletteva in avanti, ruotando il volto verso la sua sinistra, volgeva lo sguardo e non guardava, non lasciava trasparire alcun obiettivo, perché era la proiezione di chissà quale mio desiderio.
Chiusi gli occhi e sentii il torpore invadermi. Mi lasciai avvolgere dall’abisso e sparii.
Al risveglio, la donna ormai fagocitata nel cunicolo della memoria, guardai il riflesso sulle pareti,
il biancore suscitava un’atmosfera
allucinata. Le strisce di cielo
si riunivano per sganciare
fuochi propulsivi,
un’unica prospettiva
(come nella scena celebre per quanto arcaica di “2001: Odissea nello spazio”)
che scomparve,
mentre il giallo e l’arancione
cadevano, mescolandosi
in una nebulosa
sempre più vibrante,
sinuosa, da cui si staccò
come un serpente
con le sue squame
un filo di vapore
dissolvendosi infine
in un ultimo bagliore
d’argento in un’aurora
mercuriale.