Lo spettacolo della fine – XXIII.
Sembrava non guardare ma percepiva
esplosioni di luce – non il calore –
perché l’orizzonte picchiettava di bagliori
i vetri della cabina. La console distante
emanava i suoi colori e parole.
Un unico linguaggio fatto di segnali,
intermittenze, quasi la progressiva
scomparsa del corpo di ogni oggetto,
un alone, un’ombra come
nelle vecchie immagini di Hiroshima.
Ogni frammento di realtà rimaneva
sospeso ma al riparo da ogni minaccia,
eppure un pericolo imperscrutabile
sembrava incombere e provenire
dai bagliori. Ma lui era rannicchiato
al centro del corridoio, contro il pavimento
tiepido, su alcune lastre metalliche,
sfiorato dalle ombre dei corpi.
Il loro carattere era un insieme
di immagini latenti, scandite
in uno scenario che lui avrebbe voluto
occultare, ignorando o dimenticando i dettagli.
Il vero scopo di questo gioco a nascondere
sembrava risiedere in una volontà
passiva che non cercava indizi
e non credeva in alcun mistero.
La luce ormai blandiva
la capsula e i bagliori si attenuavano
mentre un’altra sera arancione
riempiva lo spazio e un senso
di raccoglimento emanava,
come in un riflesso concreto,
dallo schermo della console.