Lo spettacolo della fine – VIII.
Mi sveglio sempre come in quell’immagine
una volta celebre di Vertigo, immerso
nella lucina verde, nel riflesso alienante
spiazzato dall’ombra lunga che l’azione
umana ha proiettato per lungo tempo.
Prima del contatto, nel desiderio,
col feticcio costruito per destinarsi
alla dissolvenza, la finzione
amoreggiava col reale e l’eccesso.
Lo avvertivo e dovevo smorzarne la potenza,
contenerlo nello spazio minimo
della mia solitudine. Infatti
sullo schermo appaiono ancora oggi,
ogni mattina, dopo l’alba verde,
telefilm di famiglie sorridenti per relazioni
che bastano a se stesse e risollevano
lo spettatore da un quotidiano semiserio.
Un senso di colpa più alienante
della lucina verde mi dirige
alla ricerca di altre immagini,
di famiglie esplose in aeroporti
o metro, di corpi scarnificati a un soffio
dalla disintegrazione. La mia capsula
non può tornare indietro nel tempo,
è evidente, credo, per questo coordino
dalla console il peggio che l’uomo del benessere
ha prodotto, i suoi scarti, i consensi
superficiali, i corpi noiosi della gloria,
gli scheletri e i ventri estroflessi,
la riproduzione spettrale della materia
ripresa ed esposta a un compenso
che riproduce nell’ozio gli incubi
dell’essere di pienezza estinto.