
Ricardo Menéndez Salmón. Foto © Daniel Mordzinski
di Daniele Greco
La ferita, la cicatrice, la pelle.
Sull’ultimo romanzo di Ricardo Menéndez Salmón, Bambini nel tempo, Marcos y Marcos, 2015.
Quanti ancora non conoscono l’opera di Ricardo Menéndez Salmón dovrebbero correre ai ripari cercando di colmare questa imperdibile lacuna, magari iniziando proprio dall’ultimo suo libro intitolato Bambini nel tempo (Marcos y Marcos, 2015, traduzione di Claudia Tarolo).
Il quarantaquattrenne scrittore spagnolo ha concepito un “romanzo nel romanzo” in cui ogni storia entra poco alla volta in quella successiva, lasciando al lettore il gusto di scorgere, nel finale, dove vadano a collocarsi gli eventi letti in precedenza.
Suddiviso in tre capitoli – “La ferita”, “La cicatrice”, “La pelle” – il libro, a un primo livello di lettura, racconta tre infanzie: una di queste ferita a morte, una ricucita e cicatrizzata, infine l’ultima prossima a incarnarsi nel bambino che una donna incinta porta in grembo. Tuttavia, leggendo e rileggendo alcuni passi fondamentali, si ha l’impressione che quello dei “bambini nel tempo” sia un nobile pretesto letterario per l’indagine cui vuole sottoporci Salmón.
Nella finzione della fabula, il narratore che racconta le vicende è qualcuno che più di una volta si lascia andare a delle dissertazioni letterarie. Per fare due esempi: è colui il quale riassume in meno di due pagine – e con grande acutezza – lo splendido racconto di Raymond Carver, Una cosa piccola ma buona; o colui il quale, a proposito della scrittura letteraria, afferma che le opere di un autore sono il muro innalzato tra sé e il mondo per trincerarsi ai più.
Seguendo queste tracce – fortemente allegoriche – le tre infanzie diventano i mondi possibili concessi allo scrittore nascosto all’interno del romanzo, il quale rielabora una materia autobiografica; riscatta, attraverso l’invenzione pura, un’infanzia qualsiasi – che il lettore scopre non essere affatto “qualsiasi” –; infine, getta la maschera e si mostra come colui che, a distanza di anni, viene fuori dall’impasse personale in cui si trovava.
Molto simile, in questo, a uno di quegli autori che Enrique Vila-Matas ha celebrato nel suo Bartelby e compagnia, (Feltrinelli, 2002) – il romanzo-saggio dedicato agli scrittori che, come l’eponimo scrivano di Herman Melville, a un certo punto della loro carriera hanno “preferito di no”, hanno rifiutato di scrivere – il narratore ideato da Salmón ci mostra come la letteratura possa essere quello strumento capace anche solo per un istante di redimere una vita intera.
Questa possibilità, però, non è concessa a chiunque, perché lo scrittore è colui che conosce l’eventualità che i propri sforzi possano essere vanificati del tutto e, soprattutto, che egli possa venire dimenticato e ricacciato nell’oblio.
Solo coltivando il proprio deserto e il proprio isolamento può accadere di fare dono agli altri ed a se stesso del momento epifanico in cui, ad un passo dal baratro in cui si stava per sprofondare, si scorge di essere stati capaci di avere creato qualcosa di immortale.
(…) che la parola e l’immagine sono fallimento, sì, sono condanna, certo, sono sepoltura, senza dubbio, ma sono anche, sì, sono per sempre e da sempre, sì, sono, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, in solitudine e in compagnia, sono state, sono, saranno sempre l’ultimo, l’unico, l’immancabile bagaglio.