
Foto di copertina: Andrea Pozzo, Gloria di Sant’Ignazio, Roma, Chiesa di Sant’Ignazio, 1688-1694
di Gianluca D’Andrea
Carteggio VI: Estravaganze su un’auspicabile κοινὴ linguistica nazionale
Non so se si riflette ancora abbastanza sulle implicazioni della morte della tradizione petrarchesca che ha segnato le poetiche novecentesche, perché è proprio questo il punto cruciale delle istanze manieristiche che identificano il secolo breve.
Gli influssi europei, assimilati tra la fine del XIX sec. e gli inizi del XX, prima, “l’americanizzazione” (anche linguistica) della seconda metà del novecento, poi, oltre a dare la vera spinta scaturente alla nascita delle avanguardie, cioè ai fenomeni reattivi alle ideologie borghesi, e successivamente capitalistiche, hanno contribuito al dissolvimento d’impianto di una visione della poesia troppo affezionata alla tradizione classicista.
Si tratta, in buona sostanza, di rintracciare le valenze mortuarie delle macro-aree poetiche del novecento italiano.
Il manierismo, cui ci si riferisce, è riscontrabile nell’opera del più importante poeta del secolo appena trascorso: il Montale prima nostalgico e avveduto conoscitore della crisi (la cui espressione formale è la concentrazione virtuosistica, spasmodica, sull’aspetto del significante del testo), poi “concettoso” assertore, soprattutto da Satura a seguire, di quella disillusione che purtroppo ha condotto, dopo le urgenze epigoniche, alla plausibilità di una restaurazione neo-classica.
Lo slancio avanguardistico si è spento definitivamente dopo la morte dell’ultima ideologia, per cui lo scontro comunismo-capitalismo, esaurendosi nel modello anglosassone imposto su scala globale, esacerbando la confusione tra liberalismo e democrazia, cioè l’ibrida commistione di imperialismo e libertà, ha portato alla frammentazione individualistica delle coscienze (il monadismo sbandierato da molti come evidenza inattaccabile), trasformando ogni carica eversiva in automatismo, ripetibilità tecnico-linguistica che continua a deformare i generi, giustificando aprioristicamente l’invalidità dei supporti comunicativi tradizionali della forma poesia.
Nell’ambito della frammentazione, che è dominio culturale della nostra attualità, è difficile rintracciare aree vitali, germogli di una rinascita comunitaria.
L’Accademia, in Italia, risente ancora delle frustrazioni novecentesche, e l’anti-petrarchismo non è supportato da motivazioni forti, per questo i tentativi avanguardistici hanno avuto spazio nella risistemazione dei canoni ma, come abbiamo osservato, proponendo come desolante risultato l’esclusione del soggetto vitale, considerato in funzione dell’accettazione di un mutamento avvenuto in direzione del suo annullamento nell’automaticità, risposta mortificante e supponenza antiumanistica.
Un movimento diverso, potrebbe essere rappresentato in poesia, dallo slancio vitalistico di una ricerca della fuoriuscita dal sistema mortuario di cui si stanno tracciando le linee.
La figura di Giulio Ferroni, ritornando alle accademie, è tra le poche figure, se non l’unica, ad aver analizzato obiettivamente la crisi e ad aver recuperato le proposte nascoste dentro le disposizioni dominanti del secolo passato. La propaggine cortellessiana, conseguente all’impostazione di recupero perseguita da Ferroni, pur calpestando le orme di quell’insegnamento, risente in spinta e lo scavo nel patrimonio oscuro del novecento sembra per ora fermarsi a figure già ampiamente documentate, senza che sia avvertibile una riformulazione di poetiche alternative alle linee dominanti. Il contributo più importante, in questo percorso, è stato il rafforzamento progressivo della centralità di un autore come Zanzotto, il quale è riuscito a produrre una poesia che intravede la fuoriuscita, sia dalla visione classicista (che non significa tradizionalista, ricordiamolo), sia da quella avanguardistica, dall’aura mortuaria, per intenderci, in direzione dell’unica verità pertinente a ogni ricerca onesta, cioè quella sperimentale (e in grado, anche, di vivificare l’aspetto “simulativo” del linguaggio poetico).
Minimi germogli crescono dall’attraversamento di una de-costruzione necessaria, il che comporta uno sforzo di comprensione massiccio dell’accaduto, la lingua poetica non ha fatto pace con se stessa, quindi con l’esistente, ecco perché le forme chiuse continuano a risorgere nell’urgenza stilistica di un ordine di nuova concezione. Ed è proprio il repertorio tecnico della tradizione italiana a offrire un contributo d’esigenza estendibile anche al difuori dei nostri confini. Invasata di cultura anglosassone in versione statunitense – tradizione però in deficit perché ha esaurito gli ultimi slanci dell’epica originaria -, la nostra letteratura poetica non deve continuare a riciclare dall’archivio del racconto in poesia, dalle commistioni prosastiche che esprimono solo una dipendenza epigonica, ma può recuperare le sue origini di canto perfettamente inerenti alla singolarità di ogni percorso dentro un contesto che si è fatto globale, neutro, privo di riferimenti certi. Deve tentare il nuovo del proprio, risalendo alle radici di una lingua nata dal definitivo disfacimento della κοινὴ latina, come oggi, insieme ad altre culture, si assiste alla fine di un dominio culturale contaminato da più parti, ma soprattutto dalla stessa dinamica accentratrice che ha avuto come risultato le spinte centrifughe dei linguaggi altri precedentemente spinti a forza nel sistema (parlo ancora di cultura statunitense).
È ormai decisivo tentare di ristabilire un’identità linguistica su basi ibride (impure), seguendo finalmente l’esempio di Dante e dimenticando definitivamente Petrarca. Sì, perché, morta la “lingua” letteraria, morte le avanguardie, occorre rintracciare nuove pulsazioni e il novecento è un laboratorio molto produttivo di voci del margine, non sempre ben focalizzate, e quindi trascurate, da una critica che continua a essere debole per strumenti o libertà di movimento, o peggio ancora, accomodata sull’inerzia di quel poco, e abbondantemente acquisito, che la grande editoria concede ai lettori di poesia. Un esempio di questo difetto d’impostazione è la superficialità con cui è stata trattata la poesia di sperimentazione meridionale, la quale pur producendo voci forti e potenzialmente innovative, ha vissuto all’ombra delle macro-aree canonizzate, incasellata in maniera forzata, o totalmente esclusa (vedi il caso evidentissimo di Cattafi), il che non sempre è un male perché può provocare l’impulso alla riscoperta, soprattutto se sono i poeti a ristabilire il contatto, partendo dalla curiosità e dalla cura per un messaggio a volte surrettiziamente estromesso. La possibilità di riscoperta e scavo possiede una funzione riabilitativa anche del ruolo del poeta, che rinasce vivificato dall’avventura del ritrovamento e dal rischio derivante dal rimettere in discussione le recinzioni critiche che determinavano, ancora fino al novecento, l’eventuale propagazione dei testi. Probabilmente è un’illusione che può giustificarsi all’interno del quadro più ampio delle debolezze critiche cui abbiamo già fatto riferimento. L’attraversamento obliquo della tradizione novecentesca potrebbe portare a rivalutare un linguaggio troppo sbrigativamente etichettato come “barocco”, quasi a rilevare un’opacità espressiva da contrapporre alla lucidità dell’atteggiamento classicista. Una misura che invece si presenta movimentata, ricca, anche paradossale, ma col merito di mantenere un perenne slancio agonistico nei confronti dell’arbitrario e dello scontato, potrebbe suscitare nuove questioni, evitando proprio quella restaurazione classicista che rischierebbe di atrofizzare e musealizzare l’esistente, aprendo, invece, alle sempre vergini potenzialità affabulatorie e immaginifiche del linguaggio. La scomparsa dell’immensa muraglia petrarchesca può collegarsi all’affermazione del suo esatto opposto: non si tratterà, dunque, neanche di ipostatizzare – come confusamente si tenta di fare, soprattutto dalle poetiche del dato di matrice lombarda, manzoniana – l’estinzione identitaria, poiché il soggetto non ha smesso di creare, ma ha adattato le proprie modalità al mutamento esistenziale in corso. L’elaborazione poetica ha già fatto i conti con la crisi scatenata dalla frammentazione imperialistica di cui si è discusso, per cui il soggetto-nazione aveva reimpostato la propria identificazione sul conflitto autoaffermante, conducendo alle estremizzazioni totalitarie. La concrezione del male ha annichilito, a ondate intermittenti, un periodo già provato dalla perdita di slancio della classe sociale borghese instauratrice delle dinamiche imperialistiche nazionali, cioè di fenomeni che hanno portato allo scoperto la violenza radicata negli impulsi economici del capitale industriale, fino agli strascichi spionistici, ma velati e comunque dilaceranti, del secondo dopo guerra. L’ultima propaggine degli spostamenti economici di potere è rappresentabile come estrema astrazione del capitale, nascondimento delle dinamiche di potere, “fantasmizzate” sotto il lenzuolo rassicurante della democrazia globalizzata. Non si può non tener conto di queste dinamiche di falsificazione dell’esistente sotto la maschera di un reale sempre più proiettato verso una dimensione “virtualizzata”, schermata dall’informazione e dalla comunicazione di massa. La sensazione diffusa di una perdita irrimediabile si accompagna sempre al disorientamento del nuovo, infatti, la fuoriuscita non è pensabile nella presunzione dello smascheramento dell’irreale, il quale è parte conformante del nostro essere (da qui la tensione emancipante verso il vuoto della fine, inteso come orizzonte inesplorato, possibilità immaginifica e anche limite fisico), ma neanche nell’accettazione del “dato” come residuo di una vitalità che, solo nella sua sottostima, può certificare un senso (atteggiamento crepuscolare, con in aggiunta la perdita dell’ironia che permetteva, quantomeno, il contatto con la dissimulazione, manifestandola nell’atteggiamento dissacratorio. Come poi l’ironia post-moderna, con la sua esasperazione citazionista, ha fatto conservando il legame con la tradizione). Quest’ultimo atteggiamento, purtroppo, contribuisce allo spostamento della “persona” al margine dell’esistere (in poesia, al margine del testo), confuso col suo centro, trasformandola in oggetto di consumo esattamente come le piccole o grandi cose percepibili dall’habitus della quotidianità, come in un’ipnosi infinita, intossicata dal ciclo, astratto perché ormai autoimposto, del consumismo avanzato. Alcuni spostamenti sembrano verificarsi nell’attenzione a un’oggettualità inedita e dalla paura della perdita, per cui l’aspetto testimoniale della lingua può fungere da collegamento memoriale, così come la concentrazione sulle tematiche ambientali nasce in funzione della conservazione. In questi casi il testo può avvertire una nuova necessità poematica, perché alla memoria occorre lo sviluppo, come la nostalgia ha bisogno di aggrapparsi al passato, ma l’unico risultato plausibile è un ritorno utopico, una mitologia rovesciata, che non ha più possibilità di attecchire, perché rende constatabile solo l’estinzione nel rimpianto. La visione poematica, però, può contenere i germi di un diverso sviluppo solo se il passato viene accettato come repertorio da cui estrapolare il senso dell’alterazione, detto in altri termini: per verificare il movimento. Il ricordo è conoscenza di un’oscillazione apparentemente ripetitiva che porta in sé le sue modifiche, continuamente, per questo la testimonianza va, invece, rimessa in questione attraverso la variazione; infatti, se la testimonianza è nostalgica, l’alterazione è il divenire, un’irrequietezza che si auto-rinnova nel suo stesso movimento. Il soggetto può ricomparire nel testo, riacquisire il ruolo determinante di catalizzatore delle trasformazioni, accompagnando il divenire. La ricomparsa del soggetto esposto nel testo, denudato perché pienamente presente, non può essere ancora ritardata, infatti, è stato il suo annientamento novecentesco (il manierismo formalista e nostalgico, ultima propaggine classicista, come abbiamo visto) a esasperare l’impossibilità di una ricomparsa, inibendo ogni rigenerazione, riducendo il percorso oscillatorio dell’esistente all’assenza, semplificazione mortuaria, intimidazione continua ossessionata dall’aspetto testimoniale, incapace di ripartire dallo scempio della colpa. Purtroppo, nel frattempo, il mondo si è identificato in questa assenza, assorbendo il desiderio della fine, per cui il concetto esasperato del post- ha assunto la posizione di statuto, per quanto agisca complementarmente ai tentativi di scavo e recupero. Forse il post-umano potrebbe ancora essere un soggetto senziente, dipende da come si reagisce alla condizione auto-imposta dell’oggetto “automizzato”, emerso alcune volte dalle riflessioni di queste righe.
Si era parlato del recupero nostalgico attuato da alcune porzioni della poesia attuale, in tale questione occorre poter rintracciare i prodromi del malessere, ipostatizzazione di un male che il novecento poetico eredita dalla comprensione distorta di Leopardi, o meglio da una sua lettura ridimensionata, ancora una volta, dal canone classicista. Questa prospettiva parziale ne ha ridotto l’eredità, esasperandosi nelle tensioni opposte, ma entrambe nostalgiche, e per questo manieristiche, di Pascoli e D’Annunzio. Introversione psicologica ed estroflessione mascherata hanno contribuito all’annientamento del soggetto, come prima risposta all’insofferenza borghese, stagione conclusasi nella rassegnazione castrante di Montale, come abbiamo visto. Quel che viene dopo vive all’ombra di una constatazione che neppure intravede sbocchi se non, lo ripetiamo, in alcune ricerche originali e considerate eccentriche rispetto alla linea dominante.
Non è slancio l’understatement moraleggiante, d’ascendenza abbiamo detto manzoniana, di certa poesia prodotta negli ultimi anni al nord del paese, in cui l’accettazione dell’evidenza, della “datità” delle cose del mondo, sembra pianificare l’ultima confusione tra realtà e verità. Il presente, in queste poetiche, si assolutizza pietrificando il fluire, edificando un mondo crepuscolare che osserva, dalle sue piccole costruzioni, i minimi baluginii, trasformando la tensione plasmatrice nell’attesa sfibrante dell’attimo metafisico, il senso che finge di essere inatteso quando è già prodotto aprioristicamente dalla dimensione dell’attesa. A ben vedere, si tratta di poetiche della testimonianza per cui la fenomenologia del dato è àncora protettiva, costruzione sull’acquisito. La sensazione suscitata è di livellazione claustrofobica senza il respiro ampio dell’apertura. L’esposizione, invece, è il bisogno di una nudità certo immersa nel divenire, cioè non il semplicistico “ciò che è” che, a ben guardare, accade in un momento preciso sotto gli occhi del poeta, il quale presumendo di ridurre il suo ruolo alla marginalità tra le cose, non fa che sentire e trasmettere l’agio dell’accomodamento tra le stesse. La poesia, però, non cerca l’agio, né la prospettiva, comunque privilegiata, della testimonianza, ma lo slancio della ri-creazione continua, tentando di dare forma all’informe, illuminare, anche per un istante, ma non costruire, dare sempre la giusta evidenza alla terminazione (il buio che circoscrive l’essere).
Altra strana faccenda della nostra letteratura fu trascurare la vicenda sperimentale dell’opera carducciana, per la prorompenza della figura e del ruolo di questo poeta. Il nostro gusto è stato orientato in direzione della crisi e della riduzione, chi non sente trasporto per Pascoli evitando Carducci per motivi non strettamente inerenti alle capacità testuali? Mi limito al messaggio legato a sperimentazioni altissime ma incompatibili, fatto sta che la posizione del soggetto in Pascoli è esposta in negativo, il fanciullino è un piccolo narciso, non un creatore di forme, ma un disfacitore: «A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra […] » (G. Pascoli – da Il fanciullino). La sperimentazione è la poesia della riformulazione, conoscenza delle possibilità della parola che non concede tregua e accomodamenti, non nei soli termini della dissoluzione ma anche in quelli della vitalità che la contiene. Una vitalità emergente dall’abisso (ancora un’evidenza etichettabile di “barocco espressivo”, ma quanto stanno strette le etichette!), l’espressione assoluta per cui il singolo è presente, nitido nella sua non definizione, cioè presente alla propria alterità. Il testo poetico, in questi casi, mette a disposizione un messaggio “veramente” comunicabile, perché è nella complessità l’unica evidenza, contrariamente alla semplificazione assecondante del punto di vista.
Il movimento appena esposto ha la caratteristica di focalizzare dei valori comuni come l’immaginazione creativa del soggetto che si espone ad altri soggetti in modo diretto – senza infingimenti di riduzione a oggetto tra gli oggetti – o la vitalità espressiva della rielaborazione continua che è un dovere nei confronti del divenire, oscillazione espressa dalla mutazione e ripetizione dei registri.
Forse ripartire da considerazioni che riguardino le potenzialità benefiche di un linguaggio che ci si ostina a definire estinto (quello della poesia, che invece si continua a scrivere), potrebbe combaciare con il ribaltamento del canone pluricentenario, e questo veramente estinto, classicista. Certo è difficile lasciar andare il morto, l’elaborazione del lutto per un assente così ingombrante potrebbe prolungarsi, ma la vitalità espressiva che si avverte come fecondamente produttiva potrebbe collaborare a questo inevitabile processo, anzi potrebbe focalizzare, nell’essere contro la conservazione dello spettro, un nuovo orientamento (quello di cui si avverte la mancanza) del linguaggio: alla purezza dell’espressione sostituire in via definitiva la sua necessaria – perché continua – ibridazione. Il coraggio dell’estroversione può rispondere alla crisi antropologica in atto, solo occorre intendere le potenzialità dell’esposizione del soggetto e, di conseguenza, del linguaggio in un contesto che tende ad accettare, ancora, la banalità del male come un concetto distaccato dalla sua scaturigine (intrinsecamente immersa in un disordine epistemologico e storico che si protrae da almeno due secoli e che potrebbe aver fatto il suo tempo – anzi, chi scrive queste parole ne è assolutamente convinto). Occorre ormai riconoscere, invece, che “il male di vivere” ha smesso di essere produttivo e sta consegnando il linguaggio alla fine delle sue potenzialità creatrici.
(Marzo 2014)