
Mario Martinelli, L’ombra della sera (1990) ©. (Fonte: mariomartinelli.it)
di Gianluca D’Andrea
«Sto nel cuore dell’epoca, ho di fronte
una via incerta, e il tempo crea miraggi»
O. Mandel’štam
Nel suo fondamento la poesia, nella sua pratica – perché ancora parlare di fondamento è assumere una terminologia abusata che richiama concetti altrettanto abusati, come sostanza, ecc. – è il concretarsi di un’ombra attraverso un’immagine. Tentando di essere più precisi: attraverso una lunga sensazione da cui si presume possa formarsi qualcosa. Aisthēsis, il nostro tatto interno – quante volte da piccolo, con i sensi completamente scoperti, sentivo giungere un’onda indescrivibile di percezione, ed era “altro” dentro me stesso? era il “noi” caproniano? («Quanto più il poeta s’immerge nel proprio io tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo, appunto perché in quella profondissima zona del suo io è il noi», G. Caproni) – forma veramente qualcosa: l’illusione della nostra presenza. Non la materia di cui sono fatti i sogni, ma più prosaicamente la materia che si affianca a un segno, fino a trasferirsi totalmente in esso, nell’artefatto che da sempre ci supera, ci schiaccia in una “disidentificazione” che, finalmente, rende fattiva la nostra scomparsa. Forse per questo, l’essere umano, oggi, immerso e sostenuto da una massa abominevole di artefatti, oscilla tra una resa definitiva alla verità ultima dell’oggetto, che è liberazione assoluta, e la costante frustrazione della perdita del proprio ruolo identitario, conquistato, sin dagli esordi, al prezzo di sacrifici abissali, come ad esempio la rinuncia alla verità della scomparsa, a favore del desiderio di sussistenza, del segno banale che “fa” presenza.
La poesia non fa che confermare quell’oscillazione, ma più come il ricordo ostinato della necessità di essere dentro un quadro già definito, finito. Come fosse il raggiungimento di una massima libertà dentro il suo opposto.
Nel passaggio dalla definizione alla liberazione nel finito, allo stesso modo «passano le figure» (Acquario, in Transito all’ombra, p. 47), ma come «ombre» e «flussi trapassati», «membrane che respirano / le azioni compiute» (ibid., p. 47) e frazionano il tempo, gli rendono giustizia nel movimento consequenziale che si sviluppa dal respiro. La nascita del ritmo risiede in questa libertà necessaria, cioè andare “a capo”, oggi, è un’esigenza che il soggetto ricava dalla, in questo caso sicuramente primaria, necessità di libertà: è la solitudine del soggetto a far sì che avvenga un ritmo e, infine, la scelta del respiro.
Resta un’interrogazione, com’è possibile assimilare al ritmo personale un respiro collettivo? Come acquisire altro “fiato”, se non attraverso la conoscenza dell’altro nel suo racconto, nella sua storia? in una parola, nel ricordo:
«Mente, de gli anni e de l’oblio nemica,
de le cose custode e dispensiera
vagliami tua ragion, sì ch’io ridica»
(Tasso, Gerusalemme Liberata, I, 36)
ma solo
«nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato»
(Aspettavo la storia di un quadro millenario, in Transito all’ombra, p. 42)