Una riflessione su Franco Buffoni, “Il racconto dello sguardo acceso”, Marcos y Marcos, Milano, 2016

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Emilio Sanchez, Untitled, Faces, particolare

Una riflessione su Franco Buffoni, Il racconto dello sguardo acceso
(Marcos y Marcos, Milano, 2016)

«Ogni concezione della storia è sempre data insieme con una certa esperienza del tempo che è implicita in essa, che la condiziona e che si tratta, appunto, di portare alla luce».

G. Agamben

il-racconto-copIl lavoro di scavo di Buffoni nei fatti continua attraverso “inserti” narrativi che, nel complesso di un’opera pluridecennale, tradiscono un’urgenza sempre più chiarificatrice. L’indagine, compiuta tra esperienza personale e vicende del mondo, parte da un approccio poco evenemenziale, riattivandosi proprio nei nodi e negli intrecci di un flusso che prova costantemente a ri-orientare il soggetto, perché parte integrante dello stesso intreccio.
Curiosità fattuale, dunque, e si spiega così la tensione esplicativa di cui all’inizio, o volontà di cura nel tentativo di scovare, tra le situazioni e gli incontri casuali, la capacità della parola di comunicare un senso. Sforzo estenuante ma eseguito con assoluta dedizione. Ad emergere, allora, anche ne Il racconto dello sguardo acceso (che si pone negli “immediati dintorni” del precedente La casa di via Palestro, anche se, quasi specularmente, adesso lo sguardo si allarga sul mondo come nell’altra operazione si focalizzava sulle origini – due ante dello stesso οἶκος visto da prospettive diverse, in cui il ricordo ha più valenza cairologica che cronologica, e quindi riflette sulle opportunità offerte dall’esistenza più che sulla nostalgia del tempo perduto) è la capacità testimoniale della parola.
Tra wit e denuncia, arguzia e sempre rinnovata consapevolezza, Buffoni riesce a vivificare, in un tragitto in 14 stazioni (i 14 racconti del testo diviso in 2 parti, dittico nel dittico che si forma se aggiungiamo le 3 parti di 13 racconti ciascuno de La casa di via Palestro) la necessità di un’identità per troppo tempo nascosta dal senso di colpa, un’identità – personale e collettiva – che può riconoscersi solo in funzione dell’altro, com’è evidente ne Il racconto di date e guerra: «sono […] un ponte tra quattro secoli: un ponte a una arcata tra Ventesimo e Ventunesimo, e grazie alla forza della parola e del ricordo, un ponte a più arcate tra il Diciannovesimo e il Ventiduesimo» (p. 179). Ma l’agnizione avviene attraverso il continuo disconoscimento di un’identità fissa e organizzata attraverso parametri socialmente imposti. Così ne Il racconto di Pasolini possiamo leggere un’inversione di opinione nella ricezione di un messaggio tra i più controversi del secolo appena trascorso, un’inversione che rimette in questione le stesse capacità interpretative del soggetto e permette al lettore di comprendere la necessità di mantenere il proprio “sguardo acceso” sui fatti. La trasformazione che “consustanzia” il punto di vista del soggetto, aderisce al messaggio di cambiamento intravisto da Pasolini, inizialmente frainteso: una realtà nascosta tra le pieghe dell’allegoria che il reale stesso comprende nell’affabulazione della parola, il corpo dell’essere denunciato nella sua mercificazione.
Eppure è proprio in questa reificazione del corpo che si scorge il cunicolo di trasporto al presente, la constatazione del mutamento che si riversa nella parola, la necessità dirompente della testimonianza che denuncia lo stesso presente con tutto il suo peso: «Solo parole al vento, potreste replicare… Niente affatto. Perché le parole – messe tutte assieme – diventano macigni, e i macigni pesano e possono anche rotolare» (p. 216). Lucidità nell’utilizzo di ricordi sempre vivi (ecco la valenza cairologica della memoria che elimina l’impasse da “fine della storia”). L’eziologia si scioglie in racconto, la casualità degli incontri personali si spoglia di ogni mitologia e trasforma la riflessione intima in critica sociale. L’opera si presenta nella veste di un pamphlet senza invettiva, la sua caratteristica principale è un’ironia arguta e illuminata senza pathos o esuberi.
Il percorso di conoscenza – la ricerca di «una verità fattuale dentro la verità emotiva dei ricordi», (La casa di via Palestro, p. 152) – si accende sulle metamorfosi dei costumi (la centralità dell’eros, l’approccio alle lingue “altre”), intraviste come sintomi di nuove possibilità. Così ne Il racconto di segni e segnali possiamo leggere delle mutate modalità di approccio alla lettura («”Ecco, vorrei chiederti… se mi puoi mandare il pdf, così posso anche leggerlo», Così posso anche leggerlo, p. 120, oppure «Consegno il libro con la dedica per Mishima e la mia firma: “Mishima allora conosce bene l’italiano…” “No, assolutamente. Ma è un bravissimo fotografo…”», Libri come gadget, p. 122), così come degli indispensabili richiami a una tradizione che va preservata e riattivata nel presente: «Nella convinzione che sì, le ultime lettere potranno anche diventare le ultime e-mail di Jacopo Ortis, ma – dentro – qualcosa che mi piace definire anima dovrà pur continuare a pulsare» (Cuore ed e-mail, p. 124).
L’elastico tra passato e futuro – il ponte – è l’individuo, lo sguardo attento e libero che, solo nella volontà di cura per l’alterità, può slacciarsi dai vincoli del “sempre uguale” e riaffacciarsi di continuo sul presente accendendone la grazia. Gli inserti di poesia dentro la trama narrativa hanno proprio questa funzione baluginante ed è così che mi piace terminare la riflessione su Il racconto dello sguardo acceso, con un componimento che sembra riassumere il sentimento di pietas che pervade le ultime opere di Buffoni – e che infatti è già presente in forma diversa nel libro Roma, del 2009 – la sua devozione verso il mondo, la sua cura, la sua pulizia:

Gay Pride a Roma

“E il caffè dove lo prendiamo?”
chiede quella più debole, più anziana,
stanca di camminare. “Alla casa del cinema,
là dietro piazza di Siena…”
Non si erano accorte della mia presenza
nel giardinetto del museo Canonica:
si erano scambiate un’effusione,
un abbraccio stretto, un bacio sulle labbra.
Parlavano in francese, una da italiana:
“Mon amour” le diceva, che felicità
di nuovo insieme qui.
Come mi videro si ricomposero,
distanziando sulla panchina i corpi.
Le scarpe da ginnastica,
le caviglie gonfie dell’anziana…

«Quella sera, come smollò il caldo, passeggiai fino a Campo de’ Fiori: pizzeria all’angolo, due al tavolo seduti di fronte, giovani puliti timidi e raggianti. Dritti sulle sedie, col menù, sfogliavano e si scambiavano opinioni, discretamente.
Lessi una dignità in quel gesto educato al cameriere: una felicità di esserci, intensa, stabilita.
Decisi che li avrei pensati sempre così, dritti sulle sedie col menù».

Gianluca D’Andrea
(Marzo 2016)

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