
Gianluca D’Andrea (Foto di Dino Ignani)
Si è tentato più volte anche da queste pagine di fornire una definizione di Poesia, qual è la sua?
Dare una definizione di poesia mi è impossibile. Per provare a rispondere, partirei piuttosto dall’opposto di una definizione, da uno sconfinamento. In un’intervista di qualche mese fa provavo a riflettere sulla consistenza di “traccia” del segno poetico e sull’irrimediabile arbitrarietà che ne caratterizza il limite più evidente. Ecco, ora aggiungerei che il rischio di arbitrarietà è il giusto contrappeso di una forza d’animazione del reale che la poesia rende attiva attraverso la parola, la sua disposizione nel mondo. Lo sconfinamento, cui facevo riferimento, penso faccia i conti con un esubero di senso che la poesia a volte contiene e, altre volte, trasforma in un più scabro lasciare spazio: al reale, al mondo, all’altro. Secondo un adagio, che estrapolo da un verso di Wallace Stevens, «la sua mera selvaggia presenza anima il mondo che abita», ecco la poesia anima il mondo del linguaggio (quello che “abita”, appunto), di un linguaggio che sta, però, al margine del mondo, non nell’appariscenza della comunicazione informativa, bensì in quell’intercapedine tra il rumore e il silenzio, sempre sul bordo del fallimento. In un recente saggio, uscito per Sellerio lo scorso aprile, Ben Lerner scrive: «La poesia è sempre la testimonianza di un fallimento», io non credo che essa sia sempre una tale testimonianza, però ritengo cha abbia il compito di comprendere l’evenienza del fallimento, se così non fosse, non risponderebbe a un altro dei suoi compiti, forse il principale, quello della veridicità e della sua, appunto, fallibilità.