French Baroque
Diario – Autunno: 28) Come innervare un abbraccio
L’odore aspro dei tigli in questa città immersa nella palude muore sotto le arcate grigie del cielo d’autunno. Quella del concime industriale è la memoria di un benessere arcaico, interconnesso agli abusi ripetuti sulla terra, all’idea di dominio e possesso. Ma è solo una cattiva giornata, perché la terra si squaglia sotto i piedi e non so a chi chiedere aiuto. Forse è la solita litania di chi vede solo colpe e non sente il danno, d’altronde non piove questo autunno e aumentano le polveri sottili. Non è tutto vento e nebbia ciò che obnubila e impericola la mia casetta ma è anche l’ultima stilla succhiata a questa terra, piena di memoria e fantasmi. La mala razza degli uomini l’ha prosciugata, la mala razza degli uomini può riviverla? Mentre aspetto una risposta, mi chiedo ancora se esista la possibilità di un sostegno reciproco, perché il cielo, in questa stagione, è un campo pallido e innocuo ma potrebbe trasformarsi da un momento all’altro, così grande la sensazione di sospensione. È paura, anzi, che il pianeta resti per sempre alieno dal momento che non ho imparato il suo linguaggio. Come innervare un abbraccio, se sono costretto dalla museruola della distanza? L’autunno è privato dei colori, noi siamo la sua clausura, l’antidominio e l’antidoto?
Il cammino che porta quasi al gelo, attraversa boschi radi sempre più spogli, il vento sparpaglia il fogliame per la pianura, i viali alberati sono stretti nella morsa dell’aria, in un velo d’asfissia rulla un vortice di resti che cade sulla terra e si spegne.
Il cammino all’implacabile solstizio, alla roccia, alla solida madre comprime i passi. Madre? O la bituminosa marea di alghe che raffredda l’atmosfera, le biomasse alla deriva in un continente liquido e brumoso che si fondono in un corpo unico, inedito e fragile.
Il cammino attraversa una soglia e incrocia bulbi acquosi, incontra giorni sempre più bui e bestie virulente che paiono “affocarsi” in un fango formicolante e marcescente.
Ogni dettaglio si fa essenziale nelle trasformazioni silenziose della lingua, che si fa blu e s’invermiglia in un ritmo convenzionale, come un ghirigori di sentenze o un cumulo disordinato di massi. La parola si aggruma nel verde leggero dell’atmosfera stinta, fino al bianco radioso di una forma, incandescente.