Diario – Autunno: 25) Nel clima disadatto
E passa la stagione come fuoco acceso attraverso l’oscurità del mondo, ma non illumina, immiserisce e preannuncia crepe, scricchi che scondensano il ghiaccio, col mellifluo Favonio a spirare sulle schiene flessuose dei due draghi. Nessun luogo è illeso e spande colore e lo disperde inacciaiandosi e serrando ogni apertura. Tutte zone intermedie e nessuna, perché il clima è disadatto, è un orlo che corre tra i suoi estremi e questa terra è una plaga irrigidita tra correnti torbide. Prati atri nella zuppa palude trasmettono ai volti insensibili umori nuovi e l’odore malsano trasforma il carattere, lo inquina.
Eppure il fieno è raccolto e il miele di castagno e la marmellata nei vasetti è pronta a essere liccata e sucata da falegnami e youtuber, tiktoker e contadini, nun with gun e cybermonk al canto di un sogno sempre presente cantato in lipsync. Perché ogni geografia è destino e anche ogni storia, anche quella neomorfica, e gli scavi della macchina nella terra come norma, arte, Lescaux tra uri, avatar e catabasi immaginate.
Eppure l’odore delle messi meccaniche protegge e coccola la marcescenza d’Autunno, morte in vita, fragranza di Persefone, ecc.
Eppure la figurazione di un mondo «senza senso e […] senza avvenire» (T. Landolfi, Cancroregina) ma ancora pulsante di desiderio crea un’attesa. Per quanto arreso alle blandizie della pioggia, sommerso nel fango di novembre, quel desiderio si manifesta, nell’apparente impassibilità e nella stagnazione. In realtà è nel mutamento la sua fermezza, il suo artificio eterno.