
Hal Morey, Grand Central Terminal (1930)
Cammino nella metà della luce
di Gianluca D’Andrea
I. Risveglio
Dentro la storia dei bulbi noi andammo e volevamo alzarci e andare liberi tra gli stracci arborei e le tundre, tra le entità astratte e le belve, nel fulgore delle selve, negli anditi tra i bagolari e le curve dei sassi. Perché il mondo è un astro astratto dondolante e attraversare le sue linee cunicolari fu scelto nottetempo da un convoglio sintetico riunito su ceppi ramati. Eppure, tra gli strani mostri antichi, emersero parole tonitruanti
e cascate d’immagini e l’onnipotenza circolare delle forme. La notizia iniziò a circolare stentata per i sentieri di un mondo senza miti se non gioiosi e senza forza. Afriche e meridioni insormontabili in cronache oculari di sempre ulteriori coloni. Quindi partimmo sulle tracce minime lasciate dai luoghi, in ascesa sui crinali dei vecchi venti condizionati. Tremanti per la fame cominciammo, udimmo la voce lontana e gli odori acerbi del nostro incerto risveglio.
II. L’ente scimmia
I suoi arti scoordinati e fumosi, il pelo impolverato, fulvo e fragile. L’altro ente, quello da lui rinato, ha tutte le forme che gli ha dato, in tutti gli spazi in cui ha provato a nascondere il suo brutto muso, per sciogliere da sé, sé. Ora vaga senza legami in cerca di qualcosa che si ostina a scivolare come sabbia tra le pigre ondulazioni del cervello. No, non è mai stato bello e neppure intelligente da quando acchiappando il primo pasto non ha intuito la macchinazione dentro la manipolazione – almeno così dicono. Si sforma di continuo e si trasforma e scorda il dolore di non essere nient’altro che l’altro dentro sé, quella forma appena liscia di cui ha sfiorato il senso. Quasi acqua tra le mani sono io, sono oblio e il mio manto e il mio grugno.