Letteratura della catastrofe – sulla poesia di Gianluca D’Andrea

Siamo fottuti? C’è un fattaccio, che ci riguarda tutti: la nostra specie è ormai dentro fino al collo in una enorme crisi ambientale e climatica. E, se volessimo armarci di un termine retorico, potremmo considerare questa condizione come una sfida; anzi, come l’ultima delle sfide. Perché, in fondo, non è la Terra a essere davvero in pericolo, ma piuttosto il nostro habitat. «Nostro» poi… diciamo: anche nostro.Del resto, in mezzo a questa crisi, sono rimaste coinvolte anche altre specie. Con una distinzione: se la sfida della sopravvivenza di fronte alla crisi riguarda più di una specie, l’azione dell’essere umano può considerarsene la causa principale, al punto che si vorrebbe definire una volta per tutte la presente epoca geologica come Antropocene.
Potremmo essere l’ultima generazione a dire qualcosa? Ci stiamo per estinguere… o invece ce la faremo? Questi interrogativi hanno cominciato ad angosciare la nostra quotidianità, assieme a una crescente consapevolezza verso la crisi. Cerchiamo risposte e soluzioni, proviamo ogni giorno a carpire qualcosa di più, ma come degli studenti fuori corso, in ritardo. C’è allora chi, come il critico Francesco Muzzioli, usa per esempio il termine «catamodernità».Ma se volessimo rimanere concentrati sulla letteratura e sulle conseguenze che una simile disposizione d’animo abbia per la scrittura, allora preferiremmo coniare: la letteratura della catastrofe, una definizione che è nata in seguito a una conversazione con l’amico Michelangelo Franchini, anche se non saprei più dire chi tra me e lui l’abbia nominata per prima. Proviamo però a vederci chiaro. La catasfrofe ha indubbiamente a che fare con il campo semantico del disastro e della fine. La letteratura della catasfrofe però non è una letteratura distopica. Se la distopia infatti riguarda qualcosa che potrebbeaccadere, ma che ancora non è accaduto e non è detto che accada per forza, la catasfrofe è invece, almeno per ora, qualcosa di certo. Ci sono ormai autori che affrontano apertamente l’argomento e che fanno dell’argomento il focus della propria opera, come per esempio la poesia di Alexander Shurbanov.C’è poi però un altro gruppo di autori che, anche se non fa della propria opera uno strumento di aperta denuncia verso la crisi ambientale, tuttavia non può fare a meno di sentirela crisi… e perciò di risentirne. Un altro esempio, sempre dalle pagine virtuali di Yawp, potrebbe essere il poeta serboMilan Dobričić.Con questo articolo cercheremo di affrontare per la prima volta un caso italiano che si trova a metà tra le due posizioni: la poesia di Gianluca D’Andrea. E nello specifico, quella che pare essere una trilogia a partire dalla raccolta Transito all’ombra(Marcos y Marcos, 2016), per poi attraversare, come ammette lo stesso autore, il «ponte» di Forme del tempo(Arciplegato itaca, 2019) e arrivare agli inediti di Dentro le orme per farne semi, di cui proporremo alcuni testi in chiusura.

È interessante notare che se la fine distrugge ogni memoria, perché non può più esserci qualcuno a ricordare, D’Andrea fa del transito verso la fine una questione di memoria scordata; cioè di ignoranza. Ecco per esempio un j’accuseesplicito: «La tv degli anni Ottanta tentò/ di rubarci la memoria». C’è allora qui un primissimo transito, per ora solo nazionale, che porta dieci anni dopo gli italiani a godersi con ingenuità il loro presente, sotto gli effetti ignorati e accennati del cambiamento climatico: «Negli anni Novanta ho cominciato/ a fare bagni di crema solare,/ di sole intensivo, d’intenso cremare -/ ustionato, fervente, indirizzato/ a una possibile rovina». Se però la catastrofe agisce ed è agita globalmente, gli occultamenti della catastrofe non sono da meno.D’Andrea comincia dall’Italia per transitare ancora una volta e coinvolgere, in un secondo e sempre esplicito j’accuse, il nostro sistema economico: «l’Occidente era già formato./ Mentre rubavamo in un tabacchino/ il pacchetto ci esplose tra le mani,// imparai così la colpa e il destino,/ l’allarme del benessere e il possesso». Imparare diviene improvvisamente uno schock, una esplosione, perché imparare coincide con il ricordare; l’aprire gli occhi con il trauma. Ma cominciando a ricordare, D’Andrea si arma a questo punto di una lente di ingrandimento per tentare meglio una inquadratura temporale, necessaria alla ricostruzione storica: «Erano questi gli anni, trenta-vent’anni fa,/ per approssimazione la spinta individualistica/ spenta negli abusi per mantenere ricche/ le vecchie risorse» e dove di conseguenza «Il resto del mondo è il resto».