ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE (Anticipazione di Forme del tempo, in uscita per Arcipelago Itaca)

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Oggi su Le parole e le cose l’anticipazione di Forme del tempo, i miei racconti-saggio sulla contemporaneità attraverso la poesia.


di Gianluca D’Andrea

[Anticipiamo un capitolo dal volume di Gianluca D’Andrea Forme del tempo. Letture 2016-2018, in uscita oggi per Arcipelago Itaca]

ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE (UN RACCONTO)

(1ª parte)

Lo spazio aperto di cui si rifletteva nel capitolo precedente è il residuo di un’assenza. Assenza che storicamente le generazioni nate nel secondo dopoguerra hanno ricevuto in eredità e che ha portato a un disorientamento identitario che segna ancora le nostre vite in questo primo scorcio di XXI secolo.

«Nei pressi di… trovata la Lambretta», così inizia Il disperso di Maurizio Cucchi (1945): anno 1976 e nessun luogo, il nowhere dell’indistinzione in un libro il cui stilema ricorrente è l’aposiopesi, cioè l’interruzione costante del discorso, la sospensione di un senso percepibile solo attraverso la reticenza, attraverso la costatazione del vuoto e la relativa attesa. Trasloco, che non avviene, da una casa ormai ridotta in macerie a un’altra inesistente e che non indica approdi o appartenenze, «se mi guardi bene sto già pensando / al giorno non lontano in cui dovrò sgomberare la mia roba di qui / per portare tutto nell’altra casa» e poi «lo spettro / della solitudine ormai doppia (non mia)…» (Il disperso, 1976). Ma gli esempi di questo vuoto impotente potrebbero moltiplicarsi, tante le situazioni di ripercorrenza per accumulo di un passato che si vuole mantenere vivo, perché a rischio di estinzione («Tutto, tutto, / tutto potrà servire chi lo sa», ivi., in cui l’epizeusi ha funzione sì di rinforzo, ma conclude anche un contesto in cui l’accumulo per asindeto dei più svariati oggetti ha quasi funzione apotropaica rispetto al vuoto incombente – e infatti poco prima «niente – niente va mai sciupato»).

Vuoto e accumulo sono i due termini che chiudono il decennio degli anni Settanta e preavvisano il “reaganismo” degli Ottanta. In Italia, colonia statunitense di prim’ordine, il “reaganismo” d’accatto traduce il vuoto in una rincorsa selvaggia ai consumi dopo l’austerity. La conclusione (?) della “strategia della tensione” (la strage di Bologna, ahimè, inaugura il decennio) che aveva prodotto un maggiore isolamento in coscienze ancora ferite e basculanti tra il ricordo di una separazione conflittuale (ereditato dal secondo conflitto mondiale) e il consolidamento di una democrazia ancora impraticabile per la mancanza di una bipartizione effettiva dei poteri. Il ricordo della separazione (fascismo vs comunismo e inserzione capitalistica di matrice statunitense) s’intensifica nelle strategie del terrore che gli anni di piombo riportano alla ribalta, esacerbando ma anche “fossilizzando” le questioni politiche, cosicché il cittadino comune poteva proiettarsi nel desiderio di consumo che spegneva le coscienze in un individualismo edonista e a-critico. L’intensificazione degli attriti, poi, nella prima metà degli anni Ottanta tra Stati Uniti e Urss contribuisce alla pietrificazione delle coscienze in un solipsismo scoraggiato, per cui l’individuo diventa “centrale” per opporsi in modo paradigmatico a un “collettivismo” presentato come il male supremo, con tutti i suoi automatismi. L’individuo allora è sì centrale, ma per essere schiacciato in una morsa di controllo e imposizioni da matrici ideologiche diverse solo nella fabbricazione e nell’impiego di nuovi prodotti.

La fase estrema di un imperialismo su base industriale in Italia produce senso di attesa, come già era evidente ne Il disperso di Cucchi. Gli anni Ottanta, in poesia, sono inaugurati da Ora serrata retinae (1980) di Valerio Magrelli (1957), dove emerge una visuale congelata e focalizzata sui dati della coscienza (auto-coscienza tentata attraverso una poesia referto, un’auscultazione), che produce ancora attesa, emersione di un “nuovo” non ancora identificabile: «Ora bisogna liberare il suolo, curarlo, coltivarlo ed attendere / con affettuosa cautela nuove piante. / Ora si dovrà preparare un nuovo incendio» (Ora serrata retinae, 1980). Forse quello d’esordio di Magrelli è un libro sorprendente proprio per questa volontà di ricostruzione che prende avvio dal “vuoto dei padri” (un po’ come in Cucchi), ma che non sembra avere sviluppo – non si esce dall’individuo nella sua dispersione, non si esce dal “dopo la lirica”, e per questo nella rincorsa all’identità, Magrelli ricorre, nella sua opera successiva, alla figura del fantasma (quello del padre, ad esempio in Geologia di un padre del 2013): «il fantasma di cui sono il lenzuolo» (Geologia di un padre, 2013). Le operazioni più recenti di Magrelli, confermano uno stile fondato sulla paura che ogni movimento del soggetto nel reale possa provocare uno spostamento irrimediabile, una “distopia” negativa, forse giustificata dal ricordo di un passato tremendo che potrebbe essere ri-attivato in ogni istante (banalità del male), per cui a prodursi è un pessimismo che si proietta sul futuro e da cui non è possibile intravedere una strategia di fuoriuscita (pessimismo poi corroborato dalla stagnazione dell’attesa). Sarà preferibile, allora, una vita “vicaria”? Una vita vissuta da un sostituto (che nasconde l’identità o in cui è proiettata una necessità di contatto?). Una vice-vita senza storia, in attesa, appunto: «che la forma di ogni produzione / implichi effrazione, scissione, un addio / e la storia sia l’atto del combùrere / e la Terra una tenera catasta di legname / messa a asciugare al sole» (Esercizi di tiptologia, 1992).

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