È uscito l’ultimo numero dell’EstroVerso: L’ora presente (Anno XII, 2018) che ospita alcuni miei inediti. Ringraziando Grazia Calanna ne propongo alcuni insieme al link per lo sfogliabile dell’intera rivista.
H. B. – uno studio: È quindi il giardino?
Ai due angoli raggiungono le schiere
e un dito indica e indica e indica –
cosa fosse la strada triplicata, le fette
di corridoi e i cerchi paralleli
dei tre nell’unico mondo
del pannello centrale. Eppure la memoria
ritorna alle ante chiuse, alla bolla equorea,
alla gelida sfera, alla divisione grigia
e alla faccia buffa in alto,
al microbo che crea un mondo
piccolo e pronto a scompaginarsi.
Si squinterna nel brillio appariscente
dell’interno, la polpa sviscerata,
il nucleo striato di colori palpitanti…
eppure il tono freddo, l’antartide
dei primi passi è tutto un’euforia
erotica, un’orgia di posizioni
in cui fermenta il mondo.
La melma gelida indicata,
indicata, indicata
dal furbetto opposto alla figura buffa,
il creatore doppio,
l’artefice di un riflesso che guarda
per strati e rompe
la prospettiva prima di sfumare
risucchiato nel punto di fuga.
Postilla:
Già da tempo occorreva dirlo: «la finzione è l’ultima speranza» (F. Fortini), inutile fingere di non saperlo.
Da giorni studio quei pannelli sullo schermo del computer, eppure non basta (ho comprato un libro che deve ancora arrivare). Alcuni dicono di paesaggi allegorici e simbologie ricostruibili, io penso che tutto questo velare e svelare sia secondario. Molto meglio reinterpretare, cogliere il timore sotteso alla nuova scoperta, anche se parlo di un mondo circoscritto, questo artefice poteva spalancare l’immagine. Artefice, un fingitore. In questa speranza di finzione si allarga un mondo, con buona pace del sistema che tenta di rilevare con chiarezza i dati d’esperienza. A crearsi è un’altra macchina che declina questa stessa chiarezza, ne fa un velo superficiale, ma la forma decade, appunto, e dalle chele scintillanti si muove oscillando una nuova forza che provoca una spaccatura. Non si tratta di un senso superficiale, di un equilibrio, dell’epifania dell’apparenza (o, peggio, di un’apparizione), ma di una ulteriore connessione tra elementi d’immaginazione. Dell’artefice al margine dell’opera. Ahimè, chi crea non è semplicemente immerso; si ritaglia uno spazio che è anche un privilegio, una topologia fantasmatica, una proiezione. Racconta o suggerisce il suo modo di agire, indica e indica e indica perché riflette e fa riflettere sull’artificio.
*
Landscapes IV
Sikka è Vertigo.
Ripetizione di un meccanismo
in corso da sempre.
L’eterno ritorno è un gioco figo
come mollare una puzzetta
mentre sei costretto a dormire
nella merda d’uomo.
La merda dell’uomo è nobile,
poteva andare peggio, come stare
in un vortice al buio con attorno
un blob di fantasmi in carne e ossa
pronti a mangiarti e dopo violentarti.
Tutto questo capogiro occorre immaginarlo
per sempre, da non avere neanche il tempo
di pensare che le tue lacrime sono il risultato
del risucchio gravitazionale
quando l’alchimia della mente
sgorga dal rubinetto dell’ipofisi
e per ridurre lo stress
occorrerebbe pensare alla vita
come un meccanismo di riempimento oceanico.
*
P. B. incontra A. H. – Il trionfo della morte
Come se la tenerezza del desiderio
potesse svincolarsi dal rapporto con la morte.
In questo saggio esporremo la tesi
del quadro senza cornice, meglio
dell’indifferenza tra quadro e cornice –
io sto qui, sono Gianluca e osservo.
Dicevamo: nel nome del padre il desiderio
della madre – qui parte la grossa falce
al centro e l’anima/animo dirupa –
lo sguardo si bea nascosto e s’inquieta
quando chi guarda è protagonista;
l’isteria è nel suo cubo psicologico.
Ma tornando al quadro, il piano rappresentativo
inscena la danza del coincidente:
lo scheletro è già nella carne,
potresti negarlo?
e allora rendiamolo evidente
manipolando il corpo e ribaltandolo
sul piano di una psiche anulare (direbbe un amico).
Marsia esposto a decantare ci guarda
fisso dal culo di Lucifero
dal cuore di una pulsione decorticata
dalla fine imbalsamata per monitorare
perennemente la propria mortificazione –
salvezza per la propria vanità.
Io muoio, trionfante finalmente
assente al mio richiamo,
depotenziato nel flusso e nella danza,
nell’orma titillante, negli angoli remoti.