LETTURE di Gianluca D’Andrea (48): INDISTINZIONE

ruskin marx

Ruskin & Marx (elaborazione grafica di Gianluca D’Andrea)

di Gianluca D’Andrea

Di ritorno dalla morte di ritorno dalla vita
Passo da giugno a dicembre
Attraverso uno specchio indifferente
Nel cavo della vista.

(Paul Eluard, Poesia ininterrotta, 1976, p. 5. Traduzione di Franco Fortini)

Come distinguere tra le varie ripercussioni di un pensiero umano (occidentale), perennemente – nella semplificazione radicale della lettura del tempo storico – scisso?
E, infatti, non c’è da distinguere quanto piuttosto da constatare il gioco oscillatorio delle idee, al di là della fissità delle polarizzazioni. In questo modo è avvertibile la necessità metamorfica di ogni percorso e la trasformazione costante del pensiero fino all’estremizzazione negli opposti.
La figura dello specchio – così decisiva dal XIX secolo in avanti – racconta, allora, il percorso umano, non trascurando l’evidenza d’illusione – e quindi finzione – che pertiene a ciò che, nonostante il rischio arcaizzante, si può ancora definire come “verità”.
C’è del romantico in fondo nel riconoscere la “banalità del male” e allo stesso tempo sentire un forte disagio d’appartenenza in un mondo che ruota nella sua ripetitività consumistica, eppure mobile e quindi accessibile nel tentativo nostalgico di una fuoriuscita.
Ma tutti i percorsi sono liminari, occorre capire quando e in che direzione avvengono gli attraversamenti. Per mantenermi sul generico, che voglio resti tale in queste mie “letture”, allora dirò, come ho già sottolineato in altri luoghi, che l’opera di Wallace Stevens, ad esempio, oscilla costantemente tra conservazione e progressione, nonostante le etichettature critiche facciano del grande poeta statunitense un rappresentante della corrente modernista.
Non c’è niente di “moderno” in un’opera che fa delle capacità immaginifiche uno dei suoi punti di forza, pur non rinnegando la necessità di aderenza la contesto. In questa oscillazione tra constatazione e slancio utopico (l’immaginazione non è altro che l’immagine del soggetto rovesciata in un mondo ritenuto più “adatto”, che rispecchia qualità ideali non quantificabili, bensì proiettate) è in scena la mutazione, e non soltanto in epoca moderna, del concetto di uomo.
Ben oltre pragmatismi e idealismi di sorta (sempre su un piano “generalizzante”, e forse per questo più “radicale”, non vedo molte differenze tra un Marx e un Ruskin, se non che l’ingenuità asistematica del secondo possiede una forza d’attrazione maggiore per chi, essendo fuori dal secolo breve e dal pensiero debole, non può non riconoscere la magniloquenza insita in ogni sistema che si sforza nella sua coerenza. In buona sostanza, nel pensiero di Marx l’ombra del romanticismo tende a ribaltarsi, se non a nascondersi, nella superficie utopica di un superamento – laddove già in Lukács si avverte la crisi dialettica che blocca ogni fuoriuscita –, in Ruskin l’ibridazione romantica è manifesta nelle sue oscillazioni: “tutto e il contrario di tutto” è il vero reale), a contare è l’a-sistematicità del sistema, la consapevolezza di uno strato di irrealtà né più né meno profondo di ciò che si percepisce nel quotidiano.
Come in ogni immagine, non si può eludere l’evidenza della sua falsificazione – quantomeno rispetto al flusso, al movimento del reale – né il rischio di frammentazione delle scelte soggettive (mi viene da pensare in termini di “visuale” all’importanza “retorica” della “soggettiva” nelle scelte cinematografiche, così diverse, di Hitchcock e Pasolini), eppure è proprio in questa necessità immaginifica che sembra giocarsi il destino di fuoriuscita dall’impasse del ciclo del consumo: nella ri-creazione di un’illusione di fuoriuscita e non nell’attesa del concretarsi della sua possibilità.

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