
Ivan Kljun, Sfere nello spazio, 1923
Oggi su L’EstroVerso il terzo articolo della mia nuova rubrica THE ROCK – La poesia che r-esiste
«Di fatto, ci percepiamo sempre e solamente
come pastosi fantasmi, sculture nella nebbia,
scheletri addobbati alla moda con della carne».
Durs Grünbein
Il primo assillo è temporale, cruccio esistenziale e viatico indispensabile della poesia; il sostegno e la croce di questo importante libro di poesia che è Il grande innocente (Aragno, «i domani», Torino, 2017) di Gabriel Del Sarto.
Per chi ha familiarità con l’opera dell’autore toscano, potrà scorgere un’evoluzione stilistica rispetto a I viali e a Sul vuoto (le due raccolte precedenti) – e infatti Il grande innocente va a chiudere una “trilogia del tempo” come ci dice lo stesso Del Sarto in nota –, una trasformazione dell’impianto concettuale che traduce la voglia di stabilire un contatto più duraturo col mondo. La necessità “ripristinante” presente sin dagli esordi («noi colle amarene Fabbri sul gelato allo yogurt / mentre ripristiniamo scene bibliche», A 3 km., Gabriel, in I viali, Ed. Atelier, 2003, p. 10) cerca approdi e trova nel ricordo una momentanea sistemazione. Ricordo che, nel caso di quest’ultima raccolta, non si limita a condividere quelle esperienze personali che tanto hanno contraddistinto la poesia di Del Sarto (la dimensione “patetica” del linguaggio sembra adesso incrociarsi con un distacco che allontana il soggetto, quasi ridotto a presenza fantasmatica), ma affonda nell’impersonale delle ere, delle stratificazioni e delle pieghe ctonie, minerali: «Esiste quasi / da sempre anche l’Anticlinale, / è una piega / delle rocce, una struttura / dove gli strati sono convessi…» (Il tempo e la vita, p. 7).