
Rocky V – una scena
di Gianluca D’Andrea
Il ricordo, come tentativo di riappropriazione del mondo e come baluardo all’aggressività monadica del terrore, è una delle tematiche più frequentate dalle generazioni di poeti nati nel secondo dopoguerra (fino a un ultimo strascico, lo stiamo constatando, nei nati negli anni Settanta). Tematica connessa, con ogni probabilità, alla necessità di uscire dall’impasse identitaria: «Ma altri vi potranno assicurare / (e oggi io sono tra quelli) che tutto questo spossamento, in certi giorni, / non procede dall’aria né dal corpo / ma è soltanto dolore / di anime costrette, solitudine di molti, / vuoto vissuto male, / mancanza o assenza di uno scopo» (S. Dal Bianco, Prove di libertà, 2012). Proprio riconoscendo la solitudine sostanziale dell’individuo – sembra dirci il testo di Stefano Dal Bianco (1961) – può aprirsi l’opportunità di una nuova condivisione (e forse la scelta di un linguaggio piano e accessibile prova ad agire in questa direzione). S’intravede la dimensione di uno scopo, «come una cosa funziona non può andare disgiunto dal suo scopo» (ivi, 2012), di un senso percepibile almeno come interrogazione.
E se il senso può diventare riappropriabile è perché la domanda rimane sospesa e l’assenza si tramuta in percezione della realtà, storia che si fa presente e presenza: «i fiori che si sforzano / di rimanere in vita nel vaso che li ostenta. // Gli esseri non chiedono altro; esistono per sé / con cinismo e innocenza nel tempo che posseggono» (G. Mazzoni, I mondi, 2010), pura resistenza di monadi che, però, rischiano l’aggressività del terrore – almeno questo sembra essere il limite e la forza de I mondi di Guido Mazzoni (1967). Pur simulando benissimo la “neutralizzazione” del soggetto, proprio lo stesso soggetto, «quando […] impara a vivere il presente / senza pensare di appartenergli» (ivi, p. 49), deve scegliere «il proprio posto nel campo delle forze» (ivi, p. 49), cioè deve forzare la sua presenza, deve fare attrito, pur sapendo che «è ingenuo cercare di trascendere / le forze cui diamo il nostro nome» (ivi, p. 61), e proprio per questo il soggetto non può comunque rassegnarsi a «diventare solo solitudine» (ivi, p. 66).