LETTURE di Gianluca D’Andrea (45): ROCKY O DEL MOLTEPLICE INDIVIDUALE (UN RACCONTO) – 4ª parte

rocky taxi

Scene da Rocky e Taxi Driver (Collage di Gianluca D’Andrea)

di Gianluca D’Andrea

Tornando alle implicazioni cinematografiche del disagio, la nascita dei blockbusters, dicevamo, contribuisce a consolidare un clima di fiducia (noi che abbiamo vissuto il primo decennio del XXI sec., sappiamo quanto effimero) il cui controcanto è rappresentato da una filmografia di denuncia che, però, riesce a circolare ed essere distribuita su scala mondiale grazie alla “rinascenza” hollywoodiana.
Il 1976 non è solo l’anno di Rocky, ma anche quello di Taxi Driver (i due film saranno antagonisti agli Oscar del 1977), cioè del film forse più perturbante di quel filone che avrà ampia fortuna nel decennio successivo, quello del reduce di cui si era discusso in precedenza con riferimento al conflitto vietnamita. Nonostante un messaggio per nulla scontato, considerando l’ambiguità sottesa a tutta l’operazione messa in scena da Martin Scorsese, e che sfocia nell’indecidibilità etica esemplificata dall’azione compiuta dal Travis interpretato da Robert De Niro, opposta a quella progettata (e che farà del protagonista un eroe da reietto qual era), il significato globale non fa che confermare lo schema per cui un individuo ostinato (individualismo), spinto ad agire da un rifiuto psicotico scatenato dalla solitudine di chi è ritornato senza “dimora” o patria, ottiene un seppur temporaneo – stando all’enigmaticità del finale – riconoscimento.
Comunque si voglia leggere il finale aperto di Taxi Driver, le coscienze che si vanno formando negli anni conclusivi dei Settanta e tutto il decennio degli Ottanta vivranno immerse (alla “comunità” fisica viene sostituendosi gradualmente una “comunità” mediatica) nell’ambivalenza tra autoaffermazione personale e scomparsa del riconoscimento sociale, ambivalenza che l’azione “edificante” e catartica dell’immagine cinematografica non riuscirà a stabilizzare.
In questa solitudine schiacciante, allora, sembra germinare quella che chiamerei “aggressività monadica del terrore”, definizione che, a mio avviso, abbraccia i successivi anni Novanta e che avrà ripercussioni drammatiche, come sappiamo, in questo primo scorcio di secolo.
Anche la poesia italiana è ferma a questo snodo e, infatti, le generazioni nate negli anni Sessanta e Settanta si dibattono su questioni riguardanti la presenza o meno del soggetto lirico, anche se poi, almeno le voci più avvedute ripropongono tale presenza più o meno dimidiata. La tendenza a un neo-lirismo – per quanto velato si voglia l’io da una cautela al ribasso manifestata dalla predilezione per la prosa, o per una sperimentazione oggettivante, la cui risultanza sarebbe la trasformazione della poesia, in quanto genere, in una scrittura ibrida e personalizzabile – è evidente anche in autori apparentemente poco sospettabili: «Da solo entrerò nel bosco di Cattabiano / per vedere la prima pianta del mondo / che passa da un figlio a un figlio a un altro figlio / da un primo, poco prima della nostra fortuna» (A. Riccardi, Gli impianti del dovere e della guerra, 2004). Nel brano estratto dall’opera di Antonio Riccardi (1962), la solitudine è più esposta proprio quando si cerca un contatto con la storia e personale e collettiva (se Cattabiano è metonimia per il mondo e se l’elencazione per epanalessi funge da ripetizione costante, quasi eternizzante, della stessa “fortuna”. E infatti, subito dopo: «Ogni fortuna è una forma / e dopo una memoria che non finisce», ivi, 2004).

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