LETTURE di Gianluca D’Andrea (44): NELLO SPAZIO CHE RESTA (O LASCIARE SPAZIO)

Black_Square_-Kasimir_Malevich

Kazimir Malevič, “Quadrato nero”, 1915, olio su tela, Museo di Stato Russo di San Pietroburgo.

di Gianluca D’Andrea

«Costruire significa combattere il vuoto, ipnotizzare lo spazio».

(Osip Mandel’štam, Il mattino dell’acmeismo, 1919)

Slancio. Perché, constatato il vuoto lasciato dal soggetto, verificata la possibilità della scomparsa e pregustata la potenzialità bartlebiana di non dire, rimane da considerare il nesso che lega la parola al mondo, la sua spinta costruttrice-costruttiva per riformare lo spazio lasciato aperto dal vuoto, nel vuoto.
Nelle intercapedini del flusso temporale arbitrariamente stabilito dall’uomo, possono intravedersi delle “direzioni” (così tanto care a Mandel’štam). Negli spazi “vuoti” pare crearsi lo «slancio esecutivo» che contribuirebbe alla trasformazione del contesto. La poesia avrebbe, allora, questa funzione di supporto alla mutazione. Certo, lo “slancio” di matrice bergsoniana su cui fonda i suoi ragionamenti Mandel’štam, potrebbe sembrare favorire una “reazione” post-romantica al meccanicismo neopositivista; una risposta – doverosa? – alle dinamiche brutali del progresso borghese, individualistico e utilitaristico.
Eppure, ancora oggi, nell’epoca “post” per eccellenza, lo slancio compositivo (costruttore-costruttivo) continua a persistere nelle forme dell’arte, in quel gioco rappreso della forma, nello scarto che si sviluppa da un nonnulla e che rende possibile la «meraviglia adorante per qualche cosa che chiama alla sua esaltazione» (A. Zanzotto). Da un evento minimo, dall’infimo inizio («anche all’interno della più dominante e soverchiante entità vi è un “infimo inizio”, che è opposto all’insieme che lo contiene, qualcosa che è ancora in stato germinale, ancora impercettibile nella sua esiguità, da cui comincia un mutamento radicale», Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino, 2009, p. 135), l’adorazione che “costruisce” un nuovo spazio. Spazio che, nella consapevolezza della scomparsa, annulla il tempo “progressivo” e ne sfalda la linearità in molteplici direzioni potenziali. La bellezza sempre mobile del molteplice:

«poiché tutto è in transizione, e il declino stesso declina, e nell’ombra del negativo sbucano nuove iniziative e altre forse si ricompongono».

(François Jullien, Le trasformazioni silenziose, 2010, p. 73)

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