BREVI APPUNTI SULLA FINE VI – “Nessun confronto, nessuna fine”: “Senza paragone” di Gherardo Bortolotti, Transeuropa, Massa, 2013

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Gherardo Bortolotti

BREVI APPUNTI SULLA FINE VI – “Nessun confronto, nessuna fine”: Senza paragone di Gherardo Bortolotti, Transeuropa, Massa, 2013

gherardo_bortolotti_senza_paragone_copertinaIl rimpicciolimento del punto di vista in un flusso conglobante, che abbraccia il massimo possibile di un reale comunque in fuga, è la “tecnica” messa in atto da Bortolotti in questo suo libro di passaggio.
Senza paragone (ricordando che Tecniche di basso livello è del 2009 e che è uscito da poco, nel 2016, Quando arrivarono gli alieni) si presenta come un dispositivo, dunque, un conglomerato di tracce verbali messe in riga per un possibile senso. Per entrare tra le maglie di questo dispositivo occorre abbassare l’orizzonte di presenza del soggetto e provare a captare, comunque, lo sforzo di “comprensione” senza simulazioni dell’io scrivente, e la conseguente definitiva (almeno nelle intenzioni dell’autore) de-liricizzazione del contesto. Se «il mondo è quello che è indipendentemente dagli interessi di qualsiasi descrittore» (H. Putnam, Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 15), ma comprendendone gli stessi interessi, allora la prosa-mondo di Bortolotti vive nell’intreccio ad oltranza, in una tessitura verbale per cui il soggetto è come in bilico tra presenza e assenza e la sua possibilità di relazione è situata nell’intercapedine, ovvero nella funzione quasi “ri-creativa” di una similitudine molto facilmente ribaltabile in distinzione.
Forse il limite e la forza, quindi tutta l’ambivalenza del linguaggio di Bortolotti (non solo di Senza paragone) risiede nell’oscillazione scandita da tappe elencative, e quasi tassonomiche per come sono divisi numericamente i testi, che ricostituiscono la dinamica tutta illuministica di una conformazione d’archivio, enciclopedica.
Lo stratagemma compositivo del libro – e rifletterei sul titolo separando i due termini: “senza” / “paragone”, nella riproduzione dell’ambivalenza tra assenza e presenza relazionale attuabile solo nel confronto -, quella similitudine pronta a essere ribaltata nel suo opposto, plasma un’atmosfera inedita, per cui il lettore si trova immerso nel mondo “descritto” (mondo occidentale, suburbano-urbano, per lo più piccoloborghese, perciò settoriale e paradigmatico, per quanto anche totalmente “soggettivo”) come dentro una bolla, anche se l’ipotesi distanziante è come attraversata da una pietas partecipativa, a sua volta quasi congelata da una classificazione in esubero, dal surplus d’informazione.
Lo stilema della similitudine (compreso il suo opposto) è la base per lo sviluppo di un andamento solenne del discorso, ma di una maestosità diminuita, con richiami poematici classici – quasi un’epica di “basso livello” -, mentre l’impostazione sistematica pare richiamare un’esigenza di percezione “cartesiana”, all’interno dei cui assi pare muoversi uno scibile caratterizzato da ulteriori ambivalenze. Se, da un lato, la pulizia del dettato, la sua cadenza meccanica manifesta una potenzialità descrittiva, in termini di accumulazione, che rende possibile l’archiviazione in una gabbia formale, dall’altro, l’impossibilità di esprimere la “totalità” rompe le sicurezze del modello e si formano incrinature nel flusso, fino a cadere letteralmente nell’inespresso perché inesprimibile. Ma occorre riportare un esempio:

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01. come le ore di lavoro, l’interstizio lunghissimo, laminare, in cui ti inoltri tra masse di giorni perduti, di giorni a venire, di quel che resta di scenari probabili che ti vedevano felice, scartati a seguito di un particolare secondario, di una ricaduta marginale di eventi a più larga scala, della crisi finanziaria, della governance del territorio, in cui sei implicato insieme a migliaia di altre persone secondo sistemi complessi di casualità, approssimazione, eterogenesi dei fini, e che ti hanno raggiunto, e spinto nell’angolo in cui sei, ossessionato da ciò che capita, dalla macchina del presente, dalla sua estensione chilometrica, tridimensionale, apocalittica

02. come il fatalismo all’uscita dell’ufficio, le vaste prospettive di quei primi minuti

03. come il sole, le ombre precise che disegna sulle facciate degli stabili, delle villette, la limpidezza peculiare degli orizzonti suburbani che attendono l’arrivo di astronavi aliene, lunghe e vaste come cumulonembi, le cui forme segneranno il termine di ogni ordine, di ogni parsimonia nei desideri, nella consumazione dei propri giorni, in cui si avvicendano casi successivi, casi ragionevoli, che ti conducono in angoli della casa dove scopri alcune briciole, una macchia, le tracce di una tua vita passata, fantomatica in cui

(pp. 49-50).

Ad apparire è un quadro preciso pur nella propulsione dileguante nel flusso, in cui si perde (o si maschera?) il soggetto. Dall’archivio visivo e poi mnesico – per lo più la visuale è minima, concentrata sul particolare minuzioso che si espande al contesto e ritorna su se stesso, anche se l’ordigno ciclico, barocco o “illusivo”, è interrotto dal taglio secco della chiusa: «casi successivi, casi ragionevoli, che ti conducono in angoli della casa dove scopri alcune briciole, una macchia, le tracce di una tua vita passata, fantomatica in cui». Eppure, l’osservazione da “scientifica”, in direzione “cartesiana”, perde la sua risolutezza e si fa più attenta alle sfumature, alle ombre proiettate da un soggetto che sembra perdere la sua capacità di contenitore obiettivo.
All’inizio parlavo di intercapedini di contatto. Ecco, verso la fine di Senza paragone questi minimi intervalli, per cui il mondo poteva farsi luce nel dispositivo, si allargano in crepe e «si aprono dall’occhio», rendendo intuibile (e infatti Quando arrivarono gli alieni sembra confermarlo, con prestanza allegorica e affabulatoria) la presenza sempre più assidua di un’esteriorità finora tenuta a distanza.
Forse il linguaggio di Bortolotti non aveva ancora trovato la sua capacità di incontrare il mondo con la sua forza dirompente, ma Senza paragone sta proprio a manifestare la possibilità di una fuoriuscita da coordinate rassicuranti:

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01. come l’estensione del cielo nelle ore del giorno, i diversi toni di azzurro in cui la profondità si estingue, la distanza luminosa dell’orizzonte, dei quartieri periferici, delle aree industriali suburbane, oltre cui la pianura si inoltra in regioni di lontananze, bassa densità di popolazione, politiche razziste

02. affine agli anni della giovinezza, alla loro poca ricchezza lasciata alle spalle, in termini di esperienza, gioia, senso delle cose di cui

03. simile a un altro, di questi

04. diverso dalle foglie che marciscono nel parco, dall’erbaccia che spunta accanto alle ringhiere, ai cancelli, dalle giornate che ti sprofondano nell’autunno e nella normalità dell’estinzione, nella successione disillusa delle serie televisive

05. come le cose che hai finito di fare, le giornate trascorse di cui in parte possiedi i frangenti, le scene quasi sospette di salotti in penombra, di corridoi, di cucine in cui la frazione di un senso ti è apparso, mentre ti iniziavi alla sera, mentre pulivi le briciole della cena finita, i minimi resti di insalate, sugo, fette di pane, che cancellavi con lo straccio sotto la lampada accesa ed un pensiero di come sarebbe, se tutto di colpo finisse, se la sottile tensione superficiale di ciò che è in corso, di ciò che è vero, cedesse alle pressioni delle possibilità scartate, degli errori, degli impliciti paragoni con cui siamo arrivati al presente, alla soglia delle altre cose a venire, al cospetto dei nostri mobili, dei nostri cari, anch’essi inoltrati, come radici, fino a questo livello del mondo corrente, della farraginosa materia dell’ignoto reale, diretti ancora più a fondo, consumando il passato, le opinioni, l’eterogenesi dei fini, il significato sbagliato di ciò che è avvenuto e trovando, di colpo, abbassando lo sguardo, le tracce del tempo passato, degli anni lasciati alle spalle, nelle pieghe di un dito, nelle crepe del muro, nelle rughe raggiate come antichi sistemi di canali che, allo specchio, si aprono dall’occhio, verso la tempia, verso lo scorcio della nuca e tutto quello spazio, che non puoi vedere, perché lo copri

(pp. 59-60)

Gianluca D’Andrea
(Giugno 2017)

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