LETTURE di Gianluca D’Andrea (40): IL LINGUAGGIO È DELLE IMMAGINI

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John Flaxman
Trinitarian Circles

di Gianluca D’Andrea

«Le immagini di cui è fatta la nostra memoria tendono, cioè, nel corso della loro trasmissione storica (collettiva e individuale), incessantemente a irrigidirsi in spettri e si tratta appunto di restituirle alla vita. Le immagini sono vive, ma, essendo fatte di tempo e di memoria, la loro vita è sempre già Nachleben, sopravvivenza, è sempre già minacciata e in atto di assumere una forma spettrale».

(Giorgio Agamben, Ninfe, 2007, p. 22)

Nella sua Introduzione alle Rime di Dante del 1938 (ora in G. Contini, Un’idea di Dante – Saggi danteschi, Einaudi, Torino, 2001, p. 10) Gianfranco Contini parla del soggetto della scomparsa, cioè di un Dante che, nel suo slancio “stilnovista”, tende a un «individuo […] oggettivo e assoluto». In sostanza il soggetto in dissolvimento si riplasma in una nuova nascita che, proprio nella scomparsa del vecchio uomo, trova una potenzialità di riaffermazione.
Eliot, è lo stesso Contini a ricordarlo, pensava che Dante credesse ingenuamente all’importanza delle esperienze da lui stesso vissute, il che non faceva del poeta fiorentino un individuo “importante” ma contribuiva a rinforzare la convinzione di “oggettivazione” dello stesso individuo.
L’incarnazione in un oggetto – o “soggetto” dell’esperienza – porta il poeta alla materializzazione della propria immagine in un quadro, o meglio alla creazione plastica in cui le ombre della propria memoria si fanno materia di scrittura, opera. L’opera delle ombre, o la fantasmizzazione plastica con protagonista un soggetto sublimato in oggetto rappresentativo, è il concetto base che permette la costruzione della Commedia. Ma non è tanto necessario soffermarsi su eventuali spunti compositivi, quanto focalizzare la spinta inquieta – o l’oscillazione tensiva, secondo Benjamin – che conduce il poeta a una sorta di anti-stile. Il movimento nervoso e apparentemente ascensionale della lingua nel poema può essere riletto in una tensione ciclica infinita (l’Inferno come continuo riavvio del Paradiso), per cui il cammino è avvertibile nelle tappe – sì scandite nei canti, anche se spesso gli episodi travalicano il loro limite, “invadendo” lo spazio – che simulano proprio lo stesso cammino, confermando, invece, una stasi momentanea. Nello sforzo di equilibrio tra movimento e stasi si affacciano le ombre, cioè le reminiscenze del soggetto storico che prova a riattivarle e denunciarle nel presente dell’opera.
Dalla Vita Nuova in poi la memoria è in funzione dello sforzo di bloccare il tempo. Dalla visione d’insieme del “libro della memoria”, dalla ricopiatura mnesica alla pietrificazione del ricordo in un avvenimento che diventa presente in eterno. Le tappe nelle ombre della Commedia sono finalmente quelle che Agamben, parlando dell’atlante di Aby Warburg, indica come «le immagini del passato, che hanno perduto il loro significato e sopravvivono come incubi o spettri, sono tenute in sospeso nella penombra in cui il soggetto storico, fra il sonno e la veglia, si confronta con esse per restituire loro vita – ma anche, per destarsi eventualmente da esse» (G. Agamben, Ninfe, cit., p. 36). In questa dimensione ipnagogica, la penombra del pensiero rinnova, liberandosene, il passato, praticando quella stasi che abbraccia il tempo senza necessità di frazionarlo in una linearità cronologica: nessuna freccia temporale, allora, bensì l’insediamento-insidia della “sentenzia” (vedi Vita Nuova, Proemio), cioè del succo della storia che il poeta riesce a estrapolare dal libro della memoria.
La comprensione statica dei ricordi, letterari ed esperienziali, si trasforma in tensione agonistica, per cui l’equilibrio tra parola e immagine è sostenuto quasi miracolosamente grazie al ritorno sul sé, a una “passione” di sé che è anche volontà di allontanamento, o di annullamento di un sé precedente.
Il primo spettro cui l’autore vuole restituire la vita è proprio il soggetto storico, tentando di realizzare nell’infingimento linguistico-immaginale la sua resurrezione a “vita nuova”. Perché questa “vita nuova” sussista, occorre che lo stile non si fissi – rischio per il soggetto poetante e per l’essere umano in genere –, ma si trasformi continuamente e si disponga alle ombre, alle immagini del ricordo. Per questo il multi-stile di Dante è anche un anti-stile che si esprime nella stasi momentanea della memoria e non inibisce la storia, “il cammino”, in una stasi ulteriore che in assoluto concretizzi un’identità, cioè il vero spettro che minaccia l’essere in divenire e/o il divenire nell’essere, ma ne disciolga i connotati in un’alterità che renda possibile un nuovo inizio.

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