
Scheletro di Homo naledi (Fonte: Repubblica.it)
di Gianluca D’Andrea
«I nostri padri strapparono il pane da tronchi e da pietre».
(Robert Lowell, Figli della luce, 1943?, v. 1)
A parte che il termine “vertigine” richiama la dimensione lirica del soggetto in cerca continua di orientamento e accoglienza, ma in Dall’interno della specie, poesia tratta dall’omonima raccolta pubblicata da Andrea De Alberti per Einaudi agli inizi del 2017, ritroviamo ancora quel senso di sospensione ricollegabile a una malinconia che desidera il rigenerarsi di una vita di contatto. Sarà il tentativo di riscoprirsi nella relazione – nel caso del testo citato, paterna e filiale, ma anche d’appartenenza a un’umanità sull’orlo della trasformazione, e della “vertigine” che ne deriva, appunto, «dall’interno della specie».
Non m’interessa avventurarmi in un’analisi tecnico-formale approfondita del componimento, sono saturo di disquisizioni retorico-stilistiche – d’altronde il libro in questione non suscita in me alcuna tentazione in tal senso, semmai il desiderio di continuare a dire un ricordo –, mi attira lo “stupore”, cioè la sospensione, appunto, che allontaniamo da noi per non essere risucchiati dal gorgo della vertigine e del disorientamento. Infatti «ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia, / con le prove concepite fuori da ogni possibile / orizzonte di stupore», ed è con questo male che livelliamo su altro male, che tentiamo di inibire lo «scandalo» della trasformazione. Cioè la nostra vera natura di mutamento cerchiamo di sostituirla con immagini fisse che rappresentino costantemente come desideriamo apparire: immobili nel riflesso perpetuo di una posa rassicurante per quanto limitante e, aggiungerei, esiziale.
Dall’interno della specie
Eppure nel frammento di ogni memoria,
nella natura di un sorriso che supera a volte il nostro sguardo
accarezziamo la vertigine con una mano
nello scandalo innaturale che ci trattiene,
eppure, dall’interno della specie,
ognuno tenta di lenire il proprio male con una scheggia,
con le prove concepite fuori da ogni possibile
orizzonte di stupore.
(Andrea De Alberti, Dall’interno della specie, 2017, p. 15)
Ma dopo questo testo mi attrae un’altra coppia di versi della raccolta: «Esseri o prodotti di esistenze / a un minuto dall’abisso?» (Il vuoto, in Dall’interno della specie, cit., p. 23, vv. 7-8), forse perché questo lirismo della realtà apparente riesce a tollerare la scissione, la crepa che ancora ci determina. Una frattura non più tra fisica e metafisica, quanto tra conservazione e trasformazione di una figura concreta che si auto-tramanda attraverso il linguaggio. In poche parole è possibile ancora “raccontarci” ora che siamo a un passo dalla resa del linguaggio verbale? Forse non importa lo strumento ma ancora e soltanto la frattura relazionale, la separazione o sospensione che si crea tra soggetto e mondo:
«Noi siamo la scissione. Io sono la scissione. E finché l’Io presume che la scissione si trovi nell’insieme delle cose, e non in se stesso, se ne sta rannicchiato nella trappola del suo stesso inganno, della sua illusione».
(Thomas Hürlimann, L’ombrello di Nietzsche, 2017, p. 24)
Senza scissione sarebbe solo il livellamento, cioè l’espletamento di un desiderio di iper-attivazione dell’Io in funzione della promozione (e proiezione) della propria immagine e della conseguente insostenibilità di ogni attrito (una prospettiva di nevrosi e depressioni, come già avviene).
Come dice Günther Anders:
«Chi si ausculta in segreto? Chi osserva se stesso in camera dal buco della serratura? Occupazioni sconosciute.
Non c’è più alcun buco della serratura, perché non c’è più bisogno di chiavi. Non c’è più bisogno di chiavi, perché non c’è più la porta. Non c’è più la porta, perché la camera buia di ieri è oggi uno spazio come un altro».
(Günther Anders, Amare, ieri – Appunti sulla storia della sensibilità, 2004, p. 19)
Cioè l’anonimato insito nell’iper-specialismo dell’autopromozione nell’apparente trasparenza, è in realtà la caduta del mistero e del particolare. L’avvento della specie.