
William Turner, Tempesta di neve – Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth, 1842 (fonte: Tate)
di Gianluca D’Andrea
Così si allungano d’improvviso
le ombre alla fine dell’estate
e già producono l’antimondo
dell’inverno, all’inferno.
(Antonio Porta, Yellow, 2002, p. 6, vv. 8-11)
L’inferno dello straniero che è la nostra ombra, libra nelle nostre atmosfere l’aerea scintilla della forma, un nugolo di violenza che scema nel nulla della storia.
The wind cast its shadow and moves for the tree
(Nick Cave, Anthrocene, v. 18, dall’album Skeleton Tree, 2016)
La simbologia di un’oscura distruzione che è la morte che non può, non deve essere confusa con la vita, occorre ci trascini fuori dalla pozza che ci rispecchia e che, sempre più spesso, amiamo toccare:
«Isolare la morte dalla vita, impedire che l’una sia intimamente intrecciata con l’altra».
(Jean-Luc Nancy, L’intruso, 2000, p. 20)
Fuori, nel mondo che riteniamo distante dalla nostra intimità, è ancora percorribile il transito, quel percorso di distanziamento dall’io che ci avvicina al noi? Nel nostro “antimondo” che è la visione allucinata della nostra scomparsa “si allungano le ombre” di un “inferno”, quello dell’inserzione fraudolenta che soffoca la relazione:
«ci troviamo su di un crinale estremo e disperato: la necessità di salvare il mondo materiale dagli eccessi dello sviluppo può essere sostenuta solo dalla diffusione di comportamenti culturali che sappiano allontanarsi dall’abito dell’eccesso, che sappiano uscire, nell’esercizio delle forme comunicative, artistiche, letterarie, dal circolo illimitato del consumo fine a se stesso».
(Giulio Ferroni, Introduzione a Dopo la fine – Una letteratura possibile, 2010, p. XIX)
Ci troviamo, cioè, a dover affrontare l’estremità della “consumazione” e vestirci di un altro abito d’eccesso, quello della resistenza al consumo, è il vero modo di affrontare l’eccesso apparentemente astratto del ciclo del consumo stesso, superando ogni sterile minimalismo.