
Grímsey
di Gianluca D’Andrea
«Solo il suo nome, e ovviamente le date, 1900-1978: un’intera esistenza concentrata in un trattino».
(Jón Kalman Stefánsson, Grande come l’universo, 2016, p. 61)
Mentre aspetto di rileggere Pasolini, per scoprire come “dall’assenza di ogni distinzione” possano riformularsi “nuovi miti”, m’imbatto ancora una volta in Stefánsson, dopo I pesci non hanno gambe eccomi a leggere la seconda parte, Grande come l’universo, di una “banale”, cioè splendidamente comune, epopea isolana. Certo un’isola del Nord Europa con poche assonanze con la “mia” isola, un’isola del sud, mediterranea. Storia diversa, eppure liminare in entrambi i casi, vulcani e natura, terremoti e invasioni – fiordi e insenature? – ma, ripensandoci, veramente sono così diverse Islanda e Sicilia? Non so, il fatto di sentire dentro – leggendo – una storia di orientamento in uno spazio lasciato e ritrovato, ma senza nostalgia, più per necessità, in un tempo che è il “mio” tempo (anni ’80 e presente che si mescolano), ha scatenato una riflessione sulla “perdizione”, un cortocircuito:
Che ci fai, Pollicino, in questo cimitero?
Altro che le molliche: fuoco e fiamme!
Che ci fai qua?, gli chiedo,
come ci sei finito?
Possibile che tu ti perda sempre?
Cerchi di ritornare, ma ti perdi.
Tu ti perdi. Non so,
ti perdi sempre.
(Valerio Magrelli, Guida allo smarrimento dei perplessi, 2016, p. 17)
Provare a raccontare il nostro passato perduto è sempre il solo modo di riattivare il presente, in una trasformazione che si desidera sia un nuovo orientamento. Ma il presente è la risultanza di un passato-prossimo-perduto? P.P.P.
Aspettando Pasolini, “solo il suo nome”, le date, 1922-1975, e “un’intera esistenza concentrata in un trattino”.