
Kazimir Malevič, “Quadrato bianco su fondo bianco”, 1918
di Gianluca D’Andrea
«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente».
(Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 12,2)
Questo pensare di giocare liberamente è la più grande illusione del presente. Niente di nuovo – anche perché l’a-dialettica della nostra attualità risponde, evidentemente, a un’esigenza d’infinito -, infine abbiamo reso l’impossibile reale? Sì, nonostante Badiou – seguendo il “cattivo” martire Pasolini – si ostini a pensare diversamente:
«Perché per Pasolini, la caratteristica del nostro mondo, diciamo il mondo “occidentale”, è di essere e di voler essere al riparo da qualsiasi reale. Un mondo nel quale la finzione ha acquisito una tale forza che chiunque può vivere, e alla fine desiderare di vivere, come se fosse al riparo da tutto ciò che potrebbe essere una conseguenza reale.
Anche se, in un mondo del genere, se per caso il reale perfora la parvenza, abbiamo immediatamente un totale smarrimento soggettivo.
Il mondo descrittoci da Pasolini è un mondo orfano di Gramsci».
(Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis, 2016, p. 39)
La faccenda della finzione è, però, proprio l’attivazione di una fine in vita, è questo il reale che sposta l’asse del possibile; la nostra “storia” non è più dialettica o “scissa” (ancora un termine caro a Badiou), ma contiene la duplicità, l’ambiguità potenziale del reale – o, meglio, la sua molteplicità – in un silenzio ombroso (il silenzio di Cage, per intenderci, un’auscultazione), in una memoria apparentemente distaccata ma che, in realtà, scaturisce dagli eventi. Solo così è possibile una mitografia altra, ed è strano che nella sua interpretazione di alcuni passaggi da Le ceneri di Gramsci, Badiou non abbia colto la speranza di una “rinascita del mito” insita nella “scomparsa”:
eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce…
(Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1957)
Il fatto che Pasolini scinda speranza e commiserazione, speranza nei “miseri” e negli “inermi” e autocommiserazione soggettiva («Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?»), si esprime in una teatralizzazione ancora dialettica che fa del “soggetto” il capro della Storia (in un “vittimismo” così caro al poeta “cristiano” Pasolini, e strumentale alla ricerca di un carnefice che è poi rintracciabile nello stesso “soggetto-vittima”). Ma la scia di questa dialettica otto-novecentesca si trasforma nella rappresentazione del nostro presente-futuro, riconoscibile nella commistione, non scissione, dei termini dialettici:
«L’elemento connettivo non è più la realtà di uno svolgimento successivo di stati fisici o psichici derivati necessariamente o razionalmente l’uno dall’altro, ma è la dimensione unica della memoria, nella quale si unificano in un identico piano i vari momenti fisici o psichici, per indipendenti che essi siano l’uno dall’altro».
(Fernanda Pivano, Prefazione all’Antologia di Spoon River, 1948)
Ecco, siamo scivolati nella nostra ombra, in una “dimensione unica e molteplice” che ci fa riconoscere nella finzione dell’identico, eppure ci direziona, ci orienta nell’immagine di quello che non siamo più. L’identità che ci rendeva distinguibili è circoscritta da una memoria sempre più collettiva, insomma in una comunità sempre più vasta nelle sue potenzialità di condivisione di ricordi “comuni”. Omogenea eppure varia nelle possibilità “connettive” di esperienze virtuali. Cioè l’impossibile che “realizza” il reale, seguendo il ragionamento di Badiou, è la virtualità di un’assenza di realtà, in altre parole il “reale” è la possibilità della sua scomparsa. Non sarà il “locale” a prendersi una rivincita sul “globale”, ma l’assenza di ogni distinzione a riformulare nuovi miti, e questa è la speranza “nascosta” che si può estrarre dal messaggio di Pasolini.