
Federica Cogo: Povera patria ©, 2011 (Fonte: Collezione da Tiffany)
di Gianluca D’Andrea
Il contatto pressante col dato oggettivo si risolve nella “spettralizzazione” dell’esistente proiettato nell’immagine:
«La gente sarebbe stata sensibile a quelle immagini se le immagini non avessero avuto la stessa dignità delle cose reali? La questione non era la potenza delle immagini, ma la debolezza del mondo […]; ma il mondo era fruibile soltanto sotto forma di immagini. Tutto ciò che entrava in testa si trasformava in una fotografia».
(Jonathan Franzen, Le correzioni, pp. 319-320)
Ma come negare alla dimensione del ricordo di essere riattivata attraverso uno scatto e, quindi, un’immagine?
L’altro problema è l’archiviazione: se l’accesso all’immagine è cresciuto in maniera abnorme (scatti su scatti, quotidianamente), non è però rassicurante il fatto che le fotografie non abbiano il compito di riattivare, bensì di disperdere. Il passato è inghiottito da un presente che non può trattenere e approfondire l’immagine. Non siamo neppure i frammenti delle figure che produciamo e non assorbiamo perché desideriamo che siano gli altri a farlo per noi. Ma il desiderio dell’altro è identico al nostro e così l’immagine non ha più peso, si fa incorporea, scia, fantasma della presenza:
Resteranno di me frammenti di parole
Ma sappi che più d’una volta le ore di rapimento
Le parole mi soffocarono nel petto troppo stretto
Il mondo era troppo bello…
(Jarosław Iwaszkiewicz, La mappa del tempo – Poesie scelte, 2010, p. 29)
Ma ora il mondo non è bello, è evidente.