
Petroglifi di Sego Canyon
di Gianluca D’Andrea
«Negate tutte le grandi realtà, viviamo oggi in un groviglio di mitologie nuove e particolari […], proclamate con un’incoerenza sempre più diffusa».
(Wallace Stevens)
Che poi è un mistero che attrae e inghiotte la scrittura. Cos’è la fine di “tutte le grandi realtà” se non la scomparsa di vecchie infrastrutture al cui posto s’innalzano i contrafforti di una possibile prospettiva sul mondo? E se sono terminate per sempre – nel senso che è continua la negazione di qualsiasi “grandeur”, si chiami anche ideologia – le grandi visioni, allora è necessario spiare lo scarto, la figura che emerge indistinta dalle macerie di una negazione.
Dal “groviglio di mitologie” emergono le figure che si fanno strada in un nuovo quadro, dipende, però, dall’immaginazione che scorge queste immagini. Si tratta di setacciare forme, interpretare concetti, tessere parole per provare a esprimere ciò che si presenta indefinito. La poesia è in cerca di una definizione irraggiungibile, per questo manifesta tracce, sagome di un reale inappropriabile.
La poesia giunge quando si arrende alla visione, per quanto molteplice, “aggrovigliata”, e prova a sondarne la coerenza. Il poeta cade dentro la visione e allora la poesia si trasforma in un mondo, il che comporta la scomparsa del soggetto, a prescindere dalla presenza o meno della prima persona, con buona pace di Aristotele.
«The dreadful sundry of this world» e non un altro (ancora Stevens), da cui non resta che cogliere “figure” per una nuova mitologia.
Verso il benessere
Prima di tutto ci fu una brutale presa di contatto
con la legge di gravità, e due zampe
cominciarono a chiamarsi mani verso il benessere;
e l’uso delle mani fu esteso
ad ex zampe in tanti luoghi
diversi, al super rallentatore,
e nella storia qualcuno s’accorse
di usare le mani degli altri,
e furono in molti a cedere l’uso delle proprie,
insieme alle gambe, che vennero presto dimenticate,
privilegiando le ultime novità,
con il fatto che nessun uomo è impossibile.
(Carlo Villa, La maestà delle finte, 1977, p. 65)
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Nessun uomo è impossibile quando si ha a che fare con figure e parole, conta però non perdere il contatto con il reale. Non sono figure fantastiche a prodursi da uno sforzo d’immaginazione ma forme che, nel tentativo di cogliere l’attuale, transitano nella trasformazione. La scrittura poetica compone e scompone le fattezze, tenta di riattivare il senso decretandone la scomparsa.
È una specie di caduta nell’ineffabile proprio quando più forte si fa la necessità di un contatto. Una disperazione che continua a sperare nonostante l’assenza di un fine.