LETTURE di Gianluca D’Andrea (20): IL TERRORE DI NON ESSERCI

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Le ombre lasciate dalla detonazione della bomba atomica. Museo della bomba atomica, Nagasaki (Fonte: Cultuframe)

di Gianluca D’Andrea

«Un sapere che gode e un piacere che conosce».

(Giorgio Agamben)

Ma questo è ancora ciò che chiamiamo relazione. Agamben nel 1979 s’interrogava sul capovolgimento del senso, proprio nell’epoca in cui il senso si stava annientando di là da ogni catastrofe.
La tarda Guerra Fredda stava perfezionando le strategie del terrore dopo un primo excursus ai confini ultimi dell’apocalisse. Dopo la fine della “strategia del terrore”, con la caduta delle ideologie e delle politiche comuniste, lo stesso “terrore” si è trasformato in capacità di acquisire prestigio da parte delle nazioni. Una reputazione internazionale intesa come potenza di determinare gli equilibri politici globali:

«L’arma atomica ha generato per la sua potenza una strategia di deterrenza a volte invocata come una nuova condizione di pace, spesso chiamata “l’equilibrio del terrore”. Come sappiamo, questo stesso equilibrio suscita il desiderio di possedere l’arma nucleare per diventare a propria volta un agente di tale equilibrio, sarebbe a dire, una minaccia di terrore. Da questo terrore, sia detto di passaggio, ci si potrebbe domandare, che legami non percepiti esso intrattenga con quello che chiamiamo “terrorismo”, il quale ha d’altronde preceduto l’arma nucleare. In generale si può dire che il terrore designi un’assenza o un oltrepassamento del rapporto: esso si esercita, solo, non dà inizio ad alcuna relazione»

[Jean-Luc Nancy, L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), Mimesis, 2016, p. 41]

«L’atomo sterminava la paura / del collasso, la parola scissione…» (Transito all’ombra, p. 13), ecco, nel 1979 si ragionava sul concetto di “scissione”, sul senso spezzato, oggi siamo consapevoli dell’assenza di senso, perché la caduta è già avvenuta e non ha portato nessuna rivelazione: «captavamo i messaggi apocalittici / ma mai come segni d’appartenenza, / semmai come un ricordo già avvenuto» (Ivi, pp. 17-18), cioè come qualcosa di postumo, perché ad attenderci non è un futuro, ma un presente-futuro senza rapporto dialettico e quindi senza scissione: «Dall’azione alla reazione, non vi è alcun rapporto o relazione: c’è connessione, concordanza o discordanza, andata-e-ritorno, ma non rapporto se ciò che chiamiamo rapporto ha sempre a che fare con l’incommensurabile, con ciò che rende assolutamente non equivalenti l’uno e l’altro del rapporto» [J. L. Nancy, L’equivalenza delle catastrofi (dopo Fukushima), cit., p. 44].
Ma noi viviamo il mondo dell’equivalenza e della sostituibilità degli affetti, ecco perché il sentimento, seguendo Byung-Chul Han (Psicopolitica, nottetempo, 2016, p. 52), è una «parola rovinata» (Transito all’ombra, p. 55) e senza possibilità di narrazione, se non nella finzione («ma il racconto, qui, finge la sua apocalissi», Transito all’ombra, p. 81) che si augura di riformulare un contatto, non un senso. Eppure se ancora si vuole restare nell’ambito della percezione, occorre riconsiderare il sentire come il presupposto da cui partire per cogliere e formulare: nuove forme, immagini, immaginazione.

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